“Dobbiamo crescere nella gestione vera e propria del mercato lattiero caseario e farlo attraverso le op, le cooperative e le filiere. Per fare questo servirà anche il contributo delle istituzioni, che dovrà avere la forza di mettere tutti i soggetti attorno al tavolo e costringerli ad andare d’accordo, perché spontaneamente non siamo in grado di farlo”. Così Nino Andena, allevatore di Bertonico (Lodi), con una stalla da 650 capi. Andena fra l’altro è stato un protagonista del settore dai primi anni Novanta fino al 2013 come presidente Unalat, Coldiretti Lombardia e dell’Associazione italiana allevatori.
“La forza della politica – continua Andena – sarà appunto quella di indirizzare tali decisioni, altrimenti non cresciamo e potrebbe essere un problema in termini di competitività del sistema. Se gestiamo il mercato potremo meglio gestire le variazioni produttive, ma se non avremo tale capacità, anche una fluttuazione dello 0,5% ci metterà in crisi”.
Andena, lei sta prospettando una linea di intervento in cui gli allevatori, le organizzazioni di produttori, l’industria di trasformazione, le filiere, le istituzioni si siedono attorno a un tavolo per dialogare e trovare un’intesa. Non è un libro dei sogni?
“Mi verrebbe da dire che è un grande lavoro, che non si farà mai, ma non possiamo negare che la strada sulla quale camminare è quella. Altrimenti dobbiamo sperare nei mercati internazionali delle materie grasse e vedere come vanno le quotazioni. Confrontarci con altri player come la Nuova Zelanda, la Germania, la Francia o l’Olanda, consapevoli del fatto che magari hanno regole diverse sul piano sanitario o ambientali o legate alla qualità. Tavoli di gioco differenti, ma alla fine un confronto comune su quanto costa il latte al chilogrammo. Quanto costa produrlo e quanto venderlo”.
Che anno è stato il 2016?
“Per voi giornalisti che raccontate il settore, il 2016 è stato un anno a due velocità, ma per noi allevatori è stato un anno disastroso. Per fortuna con il Pacchetto Latte 2, mediante il premio alla mancata produzione, si è alleggerito il comparto e si è verificata la risalita di questi ultimi mesi. Tuttavia, appena è finito il premio, la produzione è ripartita”.
Resta la strada dell’export.
“Senz’altro, ma non è sempre facile. Se la Russia dovesse continuare a rimanere bloccata, la perderemmo definitivamente, gettando al vento gli investimenti fatti negli anni scorsi. In Europa i consumi pro capite non aumentano. Nel mondo i mercati si conquistano sicuramente con la qualità, e in questo caso l’Italia partirebbe avvantaggiata, ma anche i prezzi giocano un ruolo non secondario. Dobbiamo tenere presente che sarà un mercato in ogni caso molto competitivo. Il prezzo del latte e del burro ora sta calando. Dovremo attrezzarci, come dicevo, per gestire la volatilità del mercato, aspetto che non sarà episodico, ma strutturale e con variazioni che non si tradurranno in oscillazioni in più o in meno nell’ordine dell’1-2%, ma anche del 10-20% in tempi rapidi. Questo manda in crisi il sistema e la soluzione deve essere individuata attraverso modalità che siano in grado di gestire le fluttuazioni. Anche perché l’Italia non può sottovalutare il fatto che tutto quello che non rientra nelle Dop è a rischio”.
Secondo lei il futuro per l’Italia è delle Dop?
“Secondo me, sì. Ma alla condizione che si riesca a creare spazi adeguati per quella diversità italiana che esiste e che è inevitabilmente legata ad aspetti come il benessere animale, la tutela ambientale e occupazionale, aspetti ai quali dobbiamo prestare attenzione. Non possiamo preoccuparci solo della produzione e del prezzo, ma dobbiamo porci anche qualche domanda”.
Ad esempio?
“Ad esempio: ci interessa la concentrazione in agricoltura su poche aziende, che stanno aumentando la produzione, mentre tante altre chiudono? Si analizzi questo aspetto, perché se una stalla chiude o se un’altra cresce a dismisura, sono da prendere in considerazione non solo i risvolti dell’economia di scala, ma anche gli ambiti sociali, occupazionali e ambientali”.
Come stiamo gestendo le Dop?
“Me lo chiedo anch’io e non so se in questa fase stiamo gestendo al meglio questa risorsa. Dobbiamo però capire che se non gestiamo bene le nostre Dop casearie, di fatto mettiamo a rischio tutto quello che abbiamo fatto di buono. Le esperienze dell’anno scorso sui prodotti non marchiati non hanno portato grandi prospettive, secondo me”.
Cioè?
“Dove i caseifici hanno prodotto formaggio non marchiato, si è verificato questo fenomeno: il mercato si è accorto che il non marchiato è uguale, o quasi, e costa meno. E così il non marchiato si è ricavato la propria fetta di mercato. Se non gestiamo subito questo problema, sarà un boomerang”.
Si farà in tempo?
“Certo, facciamo ancora in tempo. Ma dobbiamo capire se, con un aumento produttivo e la concorrenza dei formaggi cosiddetti non tipici, converrà investire in quote consortili”.
Lei cosa pensa?
“Penso di sì. Ma serve un programma serio, sapendo che non piacerà a tutti. È ora di dialogare per un piano strategico di settore che sia serio, condiviso, con una regia super partes che guardi agli interessi generali”.
Gli effetti della fine delle quote latte
Fra il 2013 e il 2014 le consegne di latte sono esplose. In Europa come in Italia. Abbiamo chiesto ad Andena quali possano esser state, secondo lui, le cause di questa situazione.
“C’è stata una concomitanza di elementi. Innanzitutto, l’aumento dei prezzi del latte. A gennaio 2014 si raggiunse un accordo sul prezzo del latte alla stalla pari a 44,50 centesimi al litro. È evidente che, quando il mercato non tira, l’allevatore adotta canoni selettivi sulla mandria molto più stringenti: un animale che produce 20 litri di latte al giorno viene mandato al macello. Se il prezzo, invece, è remunerativo, a quel punto un produttore è spinto a mungere tutte le vacche che ha a disposizione”.
La fine del regime Ue delle quote latte ha portato alla crisi.
“Sì, indubbiamente. La liberalizzazione dal vincolo di una produzione contingentata ha avuto una leva innanzitutto psicologica. Si è vista la fine di barriere produttive, in Italia aggravate da multe che avevano colpito i produttori che avevano superato la propria quota, e così gli allevatori si sono buttati a capofitto. Il prezzo era ancora tutto sommato positivo e l’export sembrava non avere confini. Ci siamo però dimenticati che la produzione di latte avviene in un contesto sociale, ambientale e politico e non solo agricolo. La Russia ha chiuso la porta i mercati europei e non li ha riaperti e oggi vediamo che sta cercando di attrezzarsi per aumentare la produzione interna. Uno sbocco comunque importante per i nostri prodotti, che è venuto a mancare e che ha gravato sul sistema. Non soltanto appesantendo il mercato europeo con una maggiore produzione, ma anche sul piano psicologico”.