Non è l’unico in Italia, ma in Italia sono pochi come lui. Imprenditori zootecnici che vivono della rendita del proprio allevamento ma che riescono a essere attivi anche nella cooperazione o nell’associazionismo, per difendere anche gli interessi dei colleghi allevatori.
È il caso di Andrea Bonati, che alleva 300 bovine di cui 150 in mungitura nella sua stalla di Valera (Pr). Ma che è anche presidente di Confcooperative Parma e della sezione di Parma del consorzio del Parmigiano Reggiano.
Semplificando, Confcooperative Parma si può definire il socio di maggioranza del Consorzio del Parmigiano Reggiano. In più dal 2000 al 2006 Bonati è stato anche addirittura presidente di questo stesso consorzio.
Tutto questo è da sottolineare perché più spesso, lungo la Penisola, cariche del genere sono appannaggio di politici o di cooperatori di professione.
La prima domanda che gli abbiamo posto è cosa lo spinga a questo doppio impegno, dal momento che è intuibile come dedicarsi a questi compiti di rappresentanza possa rappresentare un ostacolo, se non un costo, per chi quotidianamente deve governare una mandria di dimensioni non ridotte. La risposta è stata priva di retorica: «Mi occupo anche di questioni collettive non solo per senso civico eccetera, ma anche perché penso che se gli organismi collettivi migliorano, o contribuiscono a migliorare la situazione economica o sociale, alla fine, a cascata, ne gioverà assieme alle altre anche la mia azienda».
Invece è ben intuibile quale possa essere il vantaggio, derivante da questa duplice situazione, per gli organismi di rappresentanza: «L’esperienza diretta permette di vedere meglio i problemi. E di valutare se le possibili soluzioni sono applicabili».
L’allevamento
L’azienda agraria Bonati Paolo e Andreasi caratterizza dunque per un importante allevamento di bovine da latte e una importante produzione foraggera. La mandria è costituita da circa 300 bovine, di cui la metà è in mungitura. Poi abbiamo circa 30-35 vacche in asciutta e il resto sono bovine giovani.
L’alimentazione delle bovine, spiega Bonati, è improntata a canoni tradizionali e segue in pieno i dettami del disciplinare di produzione del Parmigiano Reggiano. Consiste per 2/3 nella somministrazione di foraggio e per 1/3 nella somministrazione di mangime. Foraggio: 50% fieno di medica e 50% fieno di loietto e prato stabile. Mangime: per il 30% è una linea a base energetica, a base di mais; per il 70% è una linea a base proteica.
Da metà luglio a metà settembre la parte più energetica dell’alimentazione foraggera, ossia il 50% costituito da loietto e prato stabile, viene sostituita da mais ceroso trinciato. Trinciato due volte al giorno (la mattina e la sera) e subito distribuito agli animali.
Ovviamente niente insilati.
Il foraggio utilizzato è quasi tutto di produzione aziendale: gli ettari coltivati a foraggere sono circa 120. Il resto dei foraggi proviene da aziende della zona.
Moltissime forme in più
Il duplice impegno di questo imprenditore ci permette poi di affrontare anche questioni più di carattere collettivo. Così Bonati può proporre all’Informatore Zootecnico la propria interpretazione della situazione attuale di mercato, ovviamente dal punto di vista di chi produce latte destinato al Parmigiano Reggiano.
Prima di tutto la redditività degli stessi allevatori: «In merito alla redditività della produzione del latte, dopo anni di sofferenza stiamo attraversando un periodo di relativa soddisfazione. Ma ora è opportuno che queste maggiori risorse, a disposizione dell’imprenditore zootecnico, vengano gestite oculatamente: parte dovranno andare a finanziare investimenti, parte dovranno andare a costituire riserve utili per affrontare futuri momenti di ribasso».
E poi il noto problema dell’aumento della produzione di formaggio: «Nel 2016 abbiamo prodotto 300mila forme di Parmigiano Reggiano in più rispetto al 2015. E ne sono stimate altre 300mila nel 2017 in più rispetto al 2016. Ma questo incremento dell’offerta non ha ancora prodotto una contrazione del prezzo, dunque non ha ancora avuto effetti sulla redditività aziendale. La speranza è che l’export, la promozione sul mercato italiano e il controllo del prodotto non rispondente ai requisiti qualitativi del disciplinare alla fine permettano di far assorbire questa maggiore offerta».
Per un consumatore informato
Ancora a proposito di redditività aziendale: un fattore che in passato ha inciso negativamente sul prezzo alla produzione è la politica dei prezzi effettuata dalla grande distribuzione. Bonati legge così il problema: «Il rapporto di noi produttori con la gdo è sempre difficile. Tante volte questa usa il Parmigiano come prodotto da richiamo e quindi lo propone sotto costo. La cosa crea confusione nella percezione del consumatore, che non riesce a capire bene quale sia il prezzo giusto del Parmigiano Reggiano».
Mentre ultimamente il consorzio ha manifestato grande attenzione verso la comunicazione al consumatore. «Per noi il consumatore deve essere un soggetto informato. Deve sapere che per ottenere un chilo di Parmigiano Reggiano servono ben 16 kg di latte: una bella differenza rispetto ad altri formaggi, pensiamo solo alle caciotte».
Il consumatore inoltre deve ricordare che c’è un’altra grande differenza tra il Parmigiano Reggiano che trova sul punto vendita e i formaggi di minore pregio: questi 16 kg di latte sono latte di grande qualità. «E un latte di grande qualità è un latte ben più costoso. I costi di produzione a carico dell’allevatore infatti sono determinati da un disciplinare di produzione particolarmente esigente, il più esigente e stringente a livello nazionale e forse internazionale. Lo stesso si può dire per le spese a carico del caseificio: nel caso del Parmigiano sono ben più elevate che non nel caso della produzione di altri formaggi, basti ricordare il maggiore impegno di capitali necessario per la fase di stagionatura del formaggio».
Leggi l’articolo su Informatore Zootecnico n. 13/2017
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