La scorretta informazione e l’allevamento del bovino da carne

Carne e sostenibilità, un ginepraio di fake news

carne e sostenibilità
Il reale significato del termine sostenibilità. Il contributo della zootecnia alle emissioni in confronto con le altre attività. La water footprint. Il rapporto tra la zootecnia da carne e il territorio. Facciamo chiarezza

Il comparto zootecnico, in particolare l’allevamento del bovino da carne e da latte, è continuamente oggetto di violenti attacchi mediatici in relazione al suo ruolo sui cambiamenti climatici e la sostenibilità ambientale in generale. L’assurdità è che si cerca in tutti i modi di far credere che allevare animali e conseguentemente consumarne i prodotti derivati sia la peggior azione che si possa fare nei confronti del pianeta Terra.

Ma la realtà non è certamente così! Anzi, agricoltura e zootecnia salveranno e stanno salvando il nostro pianeta, reso fragile proprio dalle abitudini della maggior parte di coloro che vivono scollegati da essi.

Nel presente articolo, questo delicato argomento verrà trattato sinteticamente e con semplicità per fornire ad ogni tipologia di lettore chiarimenti e certezze sull’importante ruolo che svolge l’allevamento sia in termini di sostenibilità ambientale che di sostentamento alimentare ed economico di una popolazione mondiale in fortissima e costante crescita.

#1 - Conosciamo il reale significato del termine sostenibilità?

Partiamo dalle basi, siamo sicuri che il concetto di sostenibilità sia chiaro e universale per tutti? La percezione comune, impropriamente diffusa anche dai media, è che il termine “sostenibilità” sia qualcosa di relativo soltanto all’ambiente ed in primis al riscaldamento globale e al consumo di risorse idriche.

Questa percezione è in realtà estremamente riduttiva e non coerente con la complessità e “multidisciplinarietà” ben descritta anche nelle normative ed azioni politiche pertinenti. In Agenda 2030, ad esempio, tramite la pubblicazione dei diversi “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, il concetto di “sostenibilità” e di “sviluppo sostenibile”, risulta chiaramente legato ad un’interrelazione tra molteplici elementi fondamentali che hanno dato origine al modello delle “5 P” (figura 1).

Emerge pertanto che il livello di “sostenibilità” di una qualsiasi attività umana, deve considerare l’interconnessione tra aspetti sociali, economici e ambientali e lo stesso vale anche per il comparto zootecnico (figura 2).

Nello specifico la prima responsabilità è quella relativa alla “food security”, ovvero garantire la disponibilità di alimenti, sicuri e di elevato valore nutrizionale, ad una popolazione mondiale in forte e costante crescita, specie nei “paesi in via di sviluppo”, nei quali all’aumento demografico si abbina un miglioramento di status economico e una maggior domanda di alimenti di origine animale.

Ad esempio, la Fao prospetta un aumento della richiesta di carne di oltre il 14% nella prossima decade e in particolare di quella avicola (+41% dell’aumento) e bovina (+20% dell’aumento). Fonte: Oecd-Fao Agricultural Outlook 2021-2030.

L’allevamento è inoltre un’importante fonte di reddito per le popolazioni specialmente nei paesi in via di sviluppo. Secondo la Fao nel mondo “il bestiame è fondamentale e dà lavoro a circa 1,3 miliardi di individui, garantendo l’accesso diretto ad alimenti ed anche ad una fonte diretta di reddito, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Tuttavia, anche in paesi evoluti come l’Italia, le produzioni animali rappresentano quasi la metà del valore dell’agroalimentare nazionale. Il solo settore della carne (bovina, suina e avicola) genera un giro d’affari di circa 30 miliardi di euro (10 miliardi alla produzione e 20 nell’industria di trasformazione), che arriva a 40 miliardi includendo latte e uova.

Solo nell’allevamento del bovino da carne ci sono, in Italia, oltre 140 mila aziende, che danno occupazione a più di 200 mila persone.

La valenza economica delle produzioni zootecniche è quindi indiscutibile come lo è il ruolo sociale e culturale conseguente alla conservazione di aree rurali che altrimenti andrebbero spopolate, e con esse le tradizioni e la cultura, inclusa quella gastronomica, che caratterizzano l’Italia nel mondo.

#2 - Emissioni di gas serra: ruolo del ruminante e focus sul bovino da carne

Tra tutte le accuse mosse al comporto zootecnico, certamente primeggia quella di essere la principale fonte di gas ad effetto serra (metano – CH4, anidride carbonica – CO2 e protossido di azoto -N2O), con citazioni quali “gli allevamenti europei sono responsabili di oltre il 17% delle emissioni di gas serra ed inquinano molto di più di tutte le auto e i furgoni in circolazione nel vecchio Continente, e con un progressivo aumento nel corso degli anni” e “l’eliminazione degli allevamenti, specialmente da carne, consentirebbe una riduzione delle emissioni globali di oltre il 50%” (GreenPeace 2020 – “Foraggiare la crisi, in che modo la zootecnia europea alimenta l’emergenza climatica”).

La situazione è realmente questa? In realtà, queste affermazioni contengono numerose imprecisioni e svariati errori metodologici. Per rispondere adeguatamente a tale assurdità è necessario distinguere la tipologia di gas emessi, il loro comportamento in atmosfera e il positivo ruolo svolto dal complesso delle attività connesse all’allevamento nel “sequestrare” carbonio dall’atmosfera.

#2.a - Contributo percentuale della zootecnia alle emissioni di gas serra in confronto con le altre attività umane.

A livello globale i dati riportati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, 2019), attribuiscono al comparto agricolo, nel complesso, un’incidenza del 10.3% sul totale delle emissioni, valore ben al di sotto del dato relativo ai trasporti, alla produzione energetica, e alle emissioni del settore residenziale e industriale (figura 3).

All’interno del comparto agricolo, la zootecnia è responsabile per circa l’80% delle emissioni, pari quindi all’8.24% del totale di cui il 62% è ripartito equamente tra l’allevamento da carne e latte (Progetto Gleam).

Quindi, il bovino da carne, a livello mondiale e facendo la media tra tutte le diverse tipologie di allevamento, è responsabile solamente del 2,5% delle emissioni complessive.

A livello europeo l’Agenzia Europea per l’Ambiente (Eea, 2022) riporta un’incidenza dell’11% sul totale delle emissioni da parte del comparto agricolo, tra l’altro in costante calo a partire dal 1990 (-2% annuo).

Al suo interno, come indicato dal documento della Commissione Europea relativo al progetto Farm to Fork, gli allevamenti in toto contribuiscono per il 70% delle emissioni, cioè il 7% del totale, di cui il 60% dall’allevamento zootecnico (pari quindi a circa il 4.6% del totale). I trasporti a livello europeo incidono invece per oltre il 30% del totale delle emissioni, per altro in continuo e vertiginoso aumento rispetto al passato e pari ad oltre il 130% dal 1990 ad oggi.

A livello italiano i dati Ispra (2022), evidenziano che il comparto agricolo nel suo complesso è responsabile solo del 9% delle emissioni totali di gas serra (32.7 Mt CO2 eq), a fronte del 78% (298.9 Mt CO2 eq) dei settori energetico, dei trasposti, residenziale e industriale (Tabella 1).

Tab. 1 - Emissioni di gas serra in Italia dai diversi settori produttivi

Macrosettore Categoria Mt CO2 eq totale, Mt CO2 eq % sul totale
Energia Industrie energetiche 81,8 298,9 78,4
Industria manifatturiera 45,9
Trasporti 85,4
Residenziale e servizi 79,8
Emissioni fuggitive 6
Industria Processi industriali ed uso dei prodotti 31 31 8,3
Agricoltura Fermentazione enterica 13,5 32,7 8,6
Gestione delle deiezioni 6,2
Coltivazione del riso 1,6
Suoli agricoli 10,8
Emissioni da combustione di residui agricoli e applicazione di urea e carbonati 0,5
Rifiuti Smaltimento in discarica dei rifiuti solidi 14,3 18,7 4,9
Trattamento biologico dei rifiuti 0,6
Incenerimento dei rifiuti 0,2
Trattamento delle acque reflue 3,6
(Ispra 2022)

Le emissioni provenienti dal comparto agricolo sono inoltre in netta e progressiva diminuzione dal 1990 ad oggi (-11,4%). Il contributo del settore zootecnico corrisponde nel complesso ad un ininfluente 6.4% delle emissioni totali (13,2 Mt CO2 eq), valore a cui l’allevamento da carne e da latte contribuiscono per il 68%, pari quindi al 4.3% del totale delle emissioni italiane (figura 3).

Emerge quindi che non solo il ruolo del comparto agro zootecnico è marginale in termini di emissioni di gas ad effetto serra ma che contrariamente al settore trasporti ed energia, tali emissioni siano in progressiva riduzione e in particolare in Italia che risulta tra i paesi più virtuosi a riguardo sia in Europa che nel resto del mondo.

#2.b - Tipologia di gas emessi, loro comportamento in atmosfera e riciclo.

Fondamentale è la distinzione dei gas emessi dalle diverse attività antropiche. L’allevamento ed in particolare quello dei ruminanti come bovino, bufalo e ovi-caprino, emettono in ambiente principalmente metano (CH4), mentre le altre attività antropiche principalmente anidride carbonica (CO2).

Tali gas si comportano in maniera estremamente differente in atmosfera, influendo in modo profondamente diverso sull’innalzamento termico e sull’efficacia e durata delle azioni di mitigazione a riguardo intraprese.

Nello specifico risulta cruciale chiarire che il CH4 pur avendo un Global Warming Potential (Gwp) 25 volte più alto di quello della CO2 (Tabella 2), permane però in atmosfera per un tempo enormemente inferiore rispetto ad essa, grazie alla presenza di meccanismi di conversione e riciclo molto più veloci ed efficienti.

Tab. 2 - Il comportamento dei diversi gas serra in atmosfera

Gas Gwp (*) Tempo di permanenza in atmosfera, anni
Anidride carbonica - CO2 1 300-1000
Metano - CH4 25 12
Protossido di azoto – N2O 298 144
(Ipcc, 1990)*) Global warming potential.

Ne consegue che, come evidenziato dal Professor Mitloehner, airquality specialist all’Università della California Davis, “Se si mantiene costante il numero di animali allevati, e conseguentemente le emissioni, la quantità di metano prodotta dal bestiame e quella di metano dissipata grazie ai meccanismi di conversione e riciclo, si bilanciano a vicenda. Ciò significa che non si aggiunge carbonio nell’atmosfera e quindi nessun riscaldamento aggiuntivo”.

Tale evidenza trova indiscutibile conferma nel fatto che le emissioni di metano dal comparto zootecnico nel corso degli anni si sono notevolmente ridotte (figura 5), in quanto al citato equilibrio si sono affiancate altre attività utili nella mitigazione di tali emissioni quali il miglioramento genetico, l’ottimizzazione del management e il ricorso a specifiche strategie nutrizionali in grado di ridurre la metanogenesi aumentando nel contempo l’efficienza digestiva e alimentare.

Relativamente all’importante diversità tra anidride carbonica e metano, si sottolinea che la CO2 emessa in atmosfera dalle altre attività antropiche vi “resta” per circa 1000 anni (rispetto ai 12 del metano), generando pertanto un effetto cumulativo sul riscaldamento globale che lima fortemente il “vantaggio” dato dal suo minor Gwp.

Questo influisce anche sull’efficacia delle misure di contenimento attuate, che per il CH4 risultano più efficaci e rapide inizialmente per poi ridursi nel lungo periodo a seguito di una progressiva riduzione del metano stesso presente in atmosfera.

Nel caso della CO2 invece le azioni di mitigazione pur non presentando risultati importanti sul riscaldamento globale nel breve periodo a causa del suo lungo tempo di permanenza e accumulo in atmosfera, risultano proprio per tale motivo più importanti e necessarie in un’ottica di salvaguardia dell’ambiente nel lungo periodo.

Tale sostanziale differenza, approfonditamente studiata dall’Università di Oxford (Lynch et al., 2020), porta ad una rivisitazione del sistema di calcolo del GWP, attribuendo, sulla base di tali differenze di permanenza in atmosfera e riciclo, nuovi coefficienti di impatto ambientale ai diversi gas serra, che evidenziano in modo incontrovertibile il ruolo marginale svolto dal settore agro-zootecnico sul riscaldamento globale.

Inoltre, e contrariamente alle emissioni degli altri settori (trasporti, energia ed industria) il CH4 proveniente dall’allevamento bovino viene efficacemente “riciclato” grazie ad un meccanismo chiamato ciclo biogenico del carbonio (figura 6).

Le piante coltivate per l’alimentazione dei bovini sono infatti in grado, grazie al ciclo di Calvin-Benson, di prelevare dall’atmosfera molecole di CO2 biogenica (cioè derivante dal CH4 tramite processi di ossidazione), e “fissarle” in un composto organico zuccherino, riuscendo così a convertire un gas inquinante, prima in un nutriente per gli animali e successivamente per l’uomo (carne e latte). A riguardo, De Vivo e Zicarelli (2019, 2020), in uno studio basato su un accurato calcolo di tale bilancio, evidenziano che il carbonio emesso a livello globale dal settore zootecnico e ben 5 volte inferiore rispetto a quello sequestrato dall’atmosfera.

Altro che zootecnia che inquina! (figura 7).

Tali dati trovano conferma nelle ricerche condotte dall’Ispra (2022), che evidenziano un potenziale di riassorbimento e stoccaggio del carbonio da parte dei suoli agricoli e delle foreste italiane pari a oltre 32 Mt CO2 eq, compensando completamente la totalità delle emissioni dell’intero comparto agricolo (32.7 Mt CO2 eq). Il potenziale di riassorbimento è inoltre in forte aumento negli ultimi anni (+23% dal 1990 ad oggi), grazie ai rilevanti progressi fatti nella gestione dei terreni agricoli, dei prati e dei pascoli (figura 8).

Contrariamente solo una piccola quota della CO2 emessa dalle altre attività umane, come i processi di estrazione ed utilizzo di combustibili fossili, viene “catturata e riciclata” dagli oceani, e inoltre la velocità con cui viene emessa ed i rilevanti quantitativi rilasciati risultano vertiginosamente superiori rispetto al marginale potenziale di stoccaggio degli oceani.

In tali processi, quindi, la CO2 si accumula e non viene riciclata in modo efficiente ma in particolare in qualcosa di riutilizzabile come il glucosio nelle colture agricole, e che rientra nella catena alimentare umana attraverso i prodotti zootecnici. Si può quindi affermare che l’allevamento del ruminante, in termini di gas emessi, sia un sistema “circolare” in cui nulla viene sprecato ma anzi efficacemente ed efficientemente riciclato in alimenti utili per l’umanità!

#3 - Water footprint: tra quantitativi totali e “tipologie” di acqua

L’impronta idrica, ovvero i quantitativi di acqua utilizzati per produrre 1 kg di prodotto finale, nello specifico carne, rappresenta un altro aspetto dal forte appeal mediatico, specie nell’attuale momento storico in cui, in particolare alle nostre latitudini, i fenomeni di siccità sono sempre più frequenti.

Qui l’apoteosi del “fake”, l’eresia che sostiene che vengano persi, distrutti, volatilizzati oltre 15.000 litri di acqua per ogni kg di carne prodotta.

Tale calcolo origina dalla somma, peraltro fortemente discutibile e già dimostrata errata, dei quantitativi “totali” di acqua usati nel corso dell’intero processo di filiera, dalla produzione dei mangimi fino alla trasformazione del prodotto finale carne, e considerando che tale volume sia completamente e irreversibilmente sottratto ad un ipotetico bacino idrico o ad una falda acquifera.

Ed ecco l’errore universale e paradossale, cioè considerare che tale acqua scompaia dalla terra come se venisse spedita “nello spazio”.

Il calcolo realistico e corretto, come proposto dal Water Footprint Network e da Hoeskstra et al. (2011), prevede invece che l’impronta idrica totale (n.d.r. i 15000 L) sia suddivisa in tre diverse tipologie di acqua, “l’acqua blu”, “l’acqua verde” e “l’acqua grigia” (tabella 3).

Tab. 3 - Le diverse tipologie di acqua come proposte dal Global Footprint Network

Acqua verde - Green Water Footprint Comprende esclusivamente i volumi di acqua piovana che sono trattenuti dal suolo e che sono disponibili effettivamente per soddisfare le esigenze delle diverse colture.
Acqua verde - Green Water Footprint Comprende esclusivamente i volumi di acqua piovana che sono trattenuti dal suolo e che sono disponibili effettivamente per soddisfare le esigenze delle diverse colture.
Acqua grigia - Grey Water Footprint Volume di acqua teoricamente necessario per diluire i contaminanti presenti nelle acque reflue in uscita dal processo produttivo, necessari per riportare l’acqua ai livelli qualitativi di partenza.

Tale approccio cambia completamente il concetto di consumo idrico evidenziando che gli oltre 15.000 litri di acqua per kg di carne, sono costituiti per il 94% da “acqua verde”, per il 4% da “acqua blu” e solo per il 2% da “acqua grigia”. Specificatamente per l’allevamento da carne italiano, tali dati risultano pari a un volume medio complessivo di acqua di 11.500 litri per kg di carne, di cui l’87% verde, il 5% blu e l’8% grigia (figura 9).

Nella valutazione del water footprint bisognerebbe inoltre considerare i diversi sistemi produttivi (brado, estensivo, pascolo controllato, semi intensivo o intensivo) nonché le differenti condizioni ambientali ed idrogeologiche delle diverse aree geografiche.

Sistemi di allevamento più efficienti e “tecnologici” sono infatti caratterizzati da una maggiore prevenzione e attenzione agli sprechi consentendo di ridurre gli oltre 26.000 litri per kg di carne dell’allevamento al pascolo ai soli 3.000 litri dell’allevamento confinato e protetto.

Cambiano però ovviamente anche i rapporti tra le diverse tipologie di acqua, con un 99% di “acqua verde” al pascolo rispetto al 90% dell’allevamento confinato, nel quale aumenta obbligatoriamente la quota di “acqua blu” e “acqua grigia” connessa all’impiego di fertilizzanti per la produzione di cereali, oleaginose e additivi alimentari.

Relativamente a clima e status idrogeologico dei diversi comprensori produttivi, il metodo proposto dalla “Ecological Scarcity” prevede l’utilizzo di specifici coefficienti di moltiplicazione per il calcolo dell’”acqua blu”, ponderati sulla base della disponibilità idrica effettiva nelle diverse aree geografiche (Tabella 4).

Questa “ponderazione” permette di correlare meglio il prelievo di acqua blu al reale “danno” compiuto nei confronti della disponibilità idrica in una determinata area geografica.

Da tale calcolo emerge che i paesi a maggiore vocazione, attuale e storica, all’allevamento da carne, come Argentina, Brasile, Usa ed anche alcuni paesi europei come Francia ed Italia, presentano un consumo reale di “acqua blu” significativamente inferiore a quello ipotizzato, grazie alla loro specifica condizione idrogeologica e di disponibilità idrica (Tabella 4).

Tab.4 - Consumo idrico di acqua blu ponderato secondo il metodo Ecological Scarcity

Paese Fattore di conversione Consumo diretto di acqua blu, L/kg Consumo di acqua blu pesato, L eq/kg
Argentina 0,022 188 4
Australia 0,039 613 24
Brasile 0,0001 178 0,1
Francia 0,619 315 195
India 1,84 722 1.328
Italia 0,87 594 516
Olanda 0,069 484 33
Polonia 1,120 399 447
Usa 0,401 525 210
(Frischknecht et al., elaborazione di Carni Sostenibili)

#4 - Zootecnia da carne e relazione con suolo e territorio

Infine, si deve discutere del rapporto tra la zootecnia da carne da una parte e suolo e territorio dall’altra; toccando problematiche come la deforestazione, l’utilizzo dei terreni agricoli e la tutela del territorio.

Le produzioni zootecniche, carne in primis, sono infine anche aspramente criticate perché accusate di sottrarre terreno utile alla produzione di alimenti di origine vegetale per l’uomo.

Una vera e propria diretta competizione con l’uomo che diventa paradossale se si considera che l’86% dell’alimentazione dei ruminanti è rappresentata da alimenti ricchi in cellulosa non digeribili dall’uomo e che vengono trasformati in proteine animali nobili, indispensabili e alla base dell’ottimale e sana crescita dell’essere umano.

In definitiva appare chiaro che il mondo deve incominciare ad attribuire, affrontare e gestire la reale responsabilità dei diversi settori sull’impatto ambientale e muoversi il più velocemente possibile nel tutelare le produzioni agricole e l’allevamento se si vuole ancora e realmente salvare il pianeta.


Definizione di Global Warming Potential

“Misura della quantità di energia che le emissioni di 1 tonnellata di un gas assorbiranno in un determinato periodo di tempo, rispetto alle emissioni di 1 tonnellata di anidride carbonica (CO2)” (fonte: Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change 1990).


Gli autori sono dell’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali (Divas).

Carne e sostenibilità, un ginepraio di fake news - Ultima modifica: 2022-10-18T17:14:32+02:00 da K4

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