Dossier Mangimi

Normativa-Art62

Un'analisi a 360 gradi di un anno di sviluppi normativi per il settore mangimistico.

L’Assemblea annuale di Assalzoo, oltre a essere l’occasione in cui vengono presentati i dati relativi alla produzione del settore, rappresenta un momento per fare il punto della situazione sugli sviluppi normativi correlati alle tematiche di maggiore interesse.

 

Articolo 62

 

Innegabile che la grande novità per il settore mangimistico, abituato a essere interessato quasi esclusivamente da provvedimenti igienico-sanitari, è stata l’entrata in applicazione dell’articolo 62: “Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”, introdotto dal Decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 – Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività e convertito in legge con Legge 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. Decreto Liberalizzazioni).

 

Seppure l’articolo 62 sia stato pubblicato nel gennaio 2012, il settore mangimistico ha mantenuto qualche ragionevole dubbio sul fatto che la norma entrasse realmente in applicazione e non, come succede spesso in Italia, fosse oggetto di posticipi, deroghe o modifiche tese a ridurne la portata e il valore.

 

Cautela più che lecita, considerato che infatti alcune modifiche relative alla nullità del contratto e all’esclusione di tutte le cessioni tra imprenditori agricoli, sono state introdotte successivamente al 24 ottobre 2012 momento in cui la norma è entrata in applicazione, dalla Legge 17 dicembre 2012, n. 221.

 

Emblematico degli interessi contrapposti in gioco, da ultimo lo scambio di pareri tra ministero dello Sviluppo economico, cofirmatario del provvedimento, il cui ufficio legale ha messo in dubbio la validità della norma, e ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali che, invece, ne ha ribadito la piena vigenza.

 

Una norma che, seppure giunta in applicazione in un momento difficile, è stata accolta positivamente avendo fornito una prospettiva al settore mangimistico che da anni lamentava tempi di pagamento assolutamente insostenibili, con medie di 120 giorni e punte anche superiori ai 180 giorni, discostandosi di oltre 100 giorni dalle medie dei colleghi europei.

 

Così, se da un lato il mangimista sta vedendo concretizzarsi il miraggio di tempi di pagamento che iniziano ad attestarsi intorno ai 75 giorni, dall’altro ha dovuto predisporre, consapevole della difficile situazione degli allevatori, piani di rientro per il pregresso dilazionando il credito su periodi relativamente lunghi, con un conseguente impatto negativo sulla propria esposizione finanziaria.

 

La portata dell’articolo 62 è amplificata dalla contestuale adozione di uno specifico schema sanzionatorio che, è utile ricordare, prevede tra le altre la sanzione di entrambe le parti nel caso di mancato accordo scritto e dell’acquirente in caso di ritardato pagamento.

 

Rimane infine la questione, trattata troppo semplicisticamente in molte sedi e occasioni, degli interessi che maturano automaticamente indipendentemente dalla volontà delle parti e senza la necessità di richiesta da parte del creditore, che devono essere iscritti in bilancio e che, per informazione, non concorrono a formare la base imponibile ai fini Iva e fiscalmente seguono il cosiddetto “principio di cassa” ossia saranno tassati solo dopo essere stati percepiti.

 

Aflatossine nel mais

 

Pensando alla sostanze indesiderabili il 2012 non può che ricondurre il pensiero al problema aflatossina. A causa in un’estate con condizioni climatiche estreme, già a fine agosto la filiera si è riunita con il ministero della Salute per porre l’attenzione su un’annata maidicola nazionale preoccupante. Dati diramati e, nel gioco delle parti, smentiti con una certa velocità; fatto sta che un raccolto già problematico, a causa di una riduzione del 20% della produzione dovuto alla siccità, ha evidenziato in alcune zone d’Italia una produzione con elevati tenori di aflatossina, ampiamente oltre le soglie previste dalla norma.

 

Un’annata disastrosa che al momento ha portato a un aumento dell’approvvigionamento da oltre confine di quello che è il cereale principe dell’alimentazione animale, raggiungendo un massimo storico, e assai preoccupante, del 41,2% (3,4 milioni t).

 

In questo contesto il ministero della salute ha adottato di concerto con il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali le Procedure operative straordinarie per agevolare la gestione della situazione contingente. Situazione che, nella maggior parte dei casi, è stata gestita in modo accorto preservando la filiera latte riuscendo così a registrare un numero esiguo di ripercussioni sul sistema alimentare, rispetto all’entità del problema in campo.

 

I trattamenti di pulizia fisica migliorati sotto la pressione del momento hanno dato buoni risultati, ma, considerati i livelli di contaminazione, non sono sempre stati risolutivi. Pertanto, rimane un miraggio la possibilità di poter effettuare su larga scala una detocontaminazione chimica, processo che può essere effettuato solo in impianti esplicitamente riconosciuti dalle autorità, per svolgere tale operazione, nell’ambito del Regolamento sull’igiene dei mangimi.

 

Una boccata di ossigeno è stata data al settore primario coinvolto, grazie alla possibilità di utilizzare una significativa quota di mais nel settore delle bioenergie; ne rimane tuttavia una considerevole quantità ancora in attesa di trovare una destinazione d’uso.

 

In questa situazione Assalzoo, e il sistema mangimistico, hanno aumentato il livello di attenzione sulla qualità del mais, esprimendo le proprie riserve in merito alle richieste di un aumento dei tenori massimi di aflatossine previsti per legge. Come anticipato per far pronte alla mancanza di materia prima il settore ha dovuto guardare oltralpe, se non addirittura oltre oceano.

 

Proteine animali trasformate

 

Prime importanti novità sul fronte dell’utilizzo delle proteine animali trasformate. Ricordiamo che la Commissione europea nel 2010 con la pubblicazione del “Piano per la TSE – 2a edizione” aveva delineato la strategia europea relativamente alla reintroduzione delle proteine animali trasformate derivate da non ruminanti, stabilendone una reintroduzione graduale nelle diverse filiere, eccezion fatta per i ruminanti. Una reintroduzione che deve basarsi esclusivamente su pareri scientifici, che già esistono, e che dev’essere attuata solo quando saranno disponibili e validate tecniche analitiche atte a garantire un controllo efficace della norma.

 

Seguendo questi principi, conoscenze scientifiche e metodi analitici affidabili, la Commissione Europea ha ritenuto maturi i tempi per riammettere l’utilizzo delle proteine animali trasformate nei mangimi per l’acquacoltura. Possibilità che prima di essere sfruttata appieno dovrà comunque sottostare alle leggi del mercato ed ai relativi tempi. Ricordiamo infatti, che dopo lo sblocco normativo per l’utilizzo delle farine di sangue, sono passati anni prima che il settore ne considerasse l’utilizzo.

 

Il Regolamento Ue n. 56/2013 ha reintrodotto, a partire dal 1° giugno 2013, la possibilità di utilizzare le proteine animali trasformate (Pat) ricavate da non ruminanti nei mangimi per gli animali d’acquacoltura, rientrano nella categoria non solo i pesci, ma anche i molluschi e i crostacei.

 

La norma impone specifiche restrizioni alla produzione, al trasporto e alla trasformazione, nonché una chiara etichettatura volta a evitare un utilizzo erroneo dei prodotti che contengono Pat. In particolare sull’etichetta dei mangimi che contengono Pat dovrà essere riportata la dicitura “Contiene proteine animali trasformate derivate da non ruminanti. Da non utilizzare per la produzione di mangimi per animali d’allevamento, ad eccezione degli animali d’acquacoltura e degli animali da pelliccia”.

 

Come prevedibile la suddetta reintroduzione ha riacceso il dibattito sulla reale necessità di riaprire all’utilizzo delle proteine di origine animale nell’alimentazione degli animali. A tale proposito, premesse le ben note difficoltà di approvvigionamento di fonti proteiche per la filiera zootecnica europea e nazionale (l’Italia importa il circa il 90% del fabbisogno di farina di soia), nel caso specifico dell’acquacoltura non resta che evidenziare che la reintroduzione delle proteine animali avviene su specie naturalmente carnivore e che, andando a sostituire a livello nutrizionale una quota delle farine di pesce normalmente utilizzate, non fa altro che alleggerire la pressione su un sistema naturale che non è più in grado di fornire pescato sufficiente per l’acquacoltura mondiale. Si tratta, di fatto, di una scelta che va a favore di una produzione sostenibile in un mondo in continua crescita numerica che, ricordiamo, deve vincere la sfida di produrre di più utilizzando meno.

 

Etichettatura

 

Ancora un cantiere aperto quello dell’etichettatura dei mangimi. Infatti a due anni dall’entrata in applicazione del Regolamento Ce n. 767/2009, sono numerosi gli aggiustamenti effettuati e i punti su cui occorre ancora raggiungere un’applicazione uniforme e omogenea, non solo a livello europeo, ma anche nazionale.

 

La questione di maggiore portata è sicuramente legata all’etichettatura degli oligoelementi: il Regolamento prevede la dichiarazione della quantità di additivo e, quindi, del sale di oligoelemento, mentre, perpetuando quanto previsto dalla legislazione precedente che ben interpretava le necessità del settore, tutto il settore mangimistico europeo dichiara, o meglio dichiarava, la quantità di elemento (es. ferro, rame, ecc.).

 

A livello nazionale, già dal 2010 Assalzoo ha sostenuto con i due ministeri competenti la necessità di mantenere la dichiarazione della quantità dell’oligoelemento, indipendentemente da quanto richiesto da Dg Sanco. Scelta e richiesta supportata dalle seguenti motivazioni:

 

l Trasparenza: l’indicazione della quantità di oligoelementi permette un confronto rapido e chiaro tra i prodotti sia per il consumatore professionale che per quello non informato (consumatore finale). Infatti la dichiarazione della quantità del sale dell’oligoelemento risulta fuorviante per il consumatore, soprattutto nel caso di consumatori non professionali (uso domestico e pet-food). Si prenda ad esempio il caso di un mangime che contiene 100 g/kg di solfato rameico pentaidrato, tale prodotto a prima vista sembra molto più ricco in rame rispetto a un prodotto che contiene 50 mg/kg di ossido rameico, invece il primo prodotto contiene 25 mg/kg di rame, mentre il secondo 40 mg/kg.

 

l Coerenza legislativa: la dichiarazione della quantità dell’elemento è in linea con la legislazione vigente e in particolare con il Regolamento Ce n. 1831/2003 che prevede per l’etichettatura delle premiscele la dichiarazione della sostanza attiva (oligoelemento) e con i Regolamenti di autorizzazione che prevedono l’espressione dei tenori massimi d’inclusione riferiti all’elemento.

 

l Praticità di utilizzo: l’indicazione della quantità dell’elemento risulta in un vantaggio pratico per tutti gli operatori della filiera. Infatti sia il mangimista che l’allevatore che le autorità di controllo hanno necessità per la formulazione e per il controllo del rispetto dei limiti massimi di conoscere la quantità dell’elemento, a ciò si aggiunga che il metodo analitico utilizzato per il controllo determina la quantità dell’elemento e non è in grado di discernere la fonte che lo apporta.

 

l Stati Membri: a livello europeo è ancora forte la richiesta sia da parte degli stati membri, che dei portatori di interesse (produttori di mangimi composti e allevatori) di dichiarare in etichetta la quantità aggiunta di oligoelemento.

 

l Sale: la posizione suggerita e sostenuta a livello associativo (anche da Fefac) prevede comunque la dichiarazione delle informazioni relative al sale utilizzato, mettendo di fatto a disposizione dell’allevatore le informazioni necessarie per valutare la biodisponibilità degli oligoelementi, che come noto, variano in funzione del composto utilizzato.

 

l Sicurezza alimentare: la dichiarazione della quantità dell’elemento non solo non ha alcun impatto negativo in termini di sicurezza alimentare, ma anzi, considerato che i limiti massimi sono stabiliti sul principio attivo (oligoelemento), agevola di fatto il rispetto degli stessi da parte della filiera.

 

Ciò premesso i Ministeri hanno accolto per qualche anno la richiesta Assalzoo, ma considerata la posizione irremovibile dei Servizi di Dg Sanco, e l’imminente ispezione dell’Ufficio alimentare e veterinario (Fvo) della Commissione europea, a ottobre 2012 hanno diramato la nota “Etichettatura dei mangimi (materie prime, mangimi composti) in riferimento agli additivi in essi contenuti”, con la quale, tra altri numerosi chiarimenti, viene adottata una tabella di conversione stechiometrica per agevolare la conversione della dichiarazione dall’elemento al sale/composto (ne riportiamo una parte in Tab. 2).

 

In Europa solo 4 stati hanno modificato le modalità di etichettatura: Italia, Irlanda, Gran Bretagna e Danimarca; i primi tre hanno effettuato tale scelta sotto la pressione di un’imminente ispezione Fvo.

 

Sebbene il mercato fosse indirizzato, come in altri stati membri, a dichiarare la quantità dell’additivo aggiunto nella forma commerciale utilizzata, l’adozione di una tabella stechiometrica limita l’aprirsi di interminabili contenziosi interpretativi tra operatori e autorità di controllo e garantisce un commercio leale.

 

Sarebbe stato preferibile mantenere la dichiarazione quantitativa dell’oligoelemento, ma almeno questa soluzione, che di fatto crea una etichetta assolutamente teorica, garantisce facilmente, o quasi, la possibilità di continuare a lavorare con la quantità dell’elemento che risulta l’unico numero utile per gli addetti ai lavori (produttori di mangimi composti, nutrizionisti, formulisti, allevatori, autorità di controllo).

 

Catalogo e registro
delle materie prime

 

A tutt’oggi si registrano da più parti (operatori e autorità) perplessità per la concomitante esistenza del Catalogo delle materie prime e del Registro. Perplessità che possono esser superate solo ricordando l’iter legislativo che ha portato alla presenza di due elenchi che non risultano giustificabili da un punto di vista tecnico, ma che sono il frutto di un compromesso politico tra chi voleva una lista delle materie prime chiusa e chi la voleva aperta e non esaustiva.

 

Il Regolamento Ce n. 767/2009 prevede che a partire dal 1° settembre 2012 nelle materie prime non vi siano impurità chimiche derivanti dal processo di fabbricazione e dai coadiuvanti tecnologici. Con il Regolamento Ue n. 68/2013, che costituisce la nuova versione del Catalogo delle materie prime per mangimi, in applicazione a partire dal 19 agosto 2013, viene superata questa disposizione adottando il principio secondo cui risulta obbligatorio stabilire il contenuto massimo delle impurità solamente quando residuano nelle materie prime a una concentrazione superiore allo 0,1% (espresso in peso/peso).

 

Le altre modifiche apportate dal Regolamento sono legate all’inserimento di una serie di voci più dettagliate nella categoria degli oli e grassi, quale risultato dell’allerta diossina verificatasi in Germania tra il 2010 e il 2011 e l’inserimento della definizione di “ex prodotti alimentari” ossia i prodotti, non più destinati al settore alimentare, che vengono impiegati nei mangimi.

 

Igiene e diossine

 

Questo autunno è entrato in applicazione il Regolamento Ue n. 225/2012 che ha introdotto il riconoscimento di alcune tipologie di operatori considerati a rischio e il monitoraggio rafforzato delle diossine.

 

Per quanto riguarda l’applicazione di una norma che ha un notevole impatto economico sulla filiera, si è notata un’assenza di uniformità di interpretazione a livello nazionale nella classificazione degli operatori, con il conseguente impatto sul piano di monitoraggio rafforzato.

 

Ad evidenziare alcune lacune applicative ed interpretative vi è stata una allerta comunitaria originata in Italia. Così, dopo 9 mesi di applicazione del Regolamento, si evidenziano difficoltà nella conoscenza dei reali flussi di processo e flussi di prodotti, specialmente con riferimento ad alcuni settori quali il settore oleochimico e il biodiesel, tant’è che il Ministero sta predisponendo una nota di approfondimento per agevolare il controllo ufficiale.

 

La maggiore problematica rimane come rendere impossibile il “salto di carreggiata”, ossia come evitare che un prodotto dichiarato a uso tecnico venga, lungo la filiera, destinato a uso mangimistico, modificandone la destinazione e mettendo a rischio l’intera filiera.

 

Cross-contamination

 

Nel corso dell’audit dell’Ufficio alimentare e veterinario in Italia al fine di valutare il grado d’implementazione delle normative concernenti il settore mangimistico è stata resa evidente una carenza sia a livello di operatori che di controllori circa la gestione e il controllo della cross-contamination.

 

In tale contesto il ministero della Salute ha diramato agli organi di controllo una nota che, ribadendo la responsabilità, sancita dal Regolamento Ce n. 183/2005, di ciascun operatore per le operazioni di propria competenza, afferma che al fine di produrre mangimi conformi alla normativa vigente devono essere applicate le disposizioni previste dall’allegato II del Reg. Ce n. 183/2005. In particolare il Ministero menziona: le sequenze di produzione, i lavaggi, la linea separata per la produzione dei mangimi medicati o la distruzione del mangime contaminato. Invita, inoltre, a validare l’efficacia delle misure adottate mediante prove analitiche.

 

La conformità di un mangime in relazione alla presenza di coccidiostatici nei mangimi destinati alle specie non target è un obiettivo perseguibile, in quanto con le opportune attenzioni e procedure è possibile garantire il rispetto delle soglie del 1% e del 3% previste per legge; situazione alquanto diversa si viene a creare per i mangimi medicati, per i quali non esistendo una soglia/tolleranza legale, viene richiesta l’assenza del principio attivo nelle lavorazioni successive. Considerando che è la stessa legislazione europea a sancire inequivocabilmente che il fenomeno del carry-over è inevitabile, si tratta di un obiettivo nella pratica irraggiungibile.

 

In questo contesto il ministero della Salute, chiedendo alle autorità di controllo di verificare la conformità dei lotti prodotti successivamente a quelli contenenti principi farmacologicamente attivi, rompe un delicato equilibrio che si era creato sul territorio dove, riconoscendo quanto sancito nella circolare 1 del 1996 in merito alle buone pratiche di produzione e quindi del valore attribuito alle sequenze produttive, il controllo veniva effettuato per garantire la tutela del consumatore finale.

 

In questo contesto, oltre a prendere atto di una richiesta che non sapremo soddisfare, rimane il dubbio (in realtà neppure quello) di quale sarà la posizione degli organi di controllo nei confronti degli allevatori autorizzati a produrre mangimi medicati. Infatti, considerate le difficoltà che incontrano i mangimisti che gestiscono da 50 a oltre 100 formulazioni giornaliere e che quindi hanno ampio margine di manovra,ci si chiede come sia possibile per un allevatore, che produce esclusivamente per il proprio fabbisogno aziendale, riuscire a soddisfare le richieste ministeriali.

 

Queste sono solo le principali aree di interesse dell’anno passato, a cui se ne aggiungono tante altre quali: le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, gli elevati costi energetici, i costi di trasporto, il credito Iva, la sicurezza sui luoghi di lavoro, l’antibiotico resistenza, la concorrenza sleale, la confusa gestione delle allerte e l’assoluta mancanza di valorizzazione dell’autocontrollo, ecc.

Allegati

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Normativa-Art62 - Ultima modifica: 2014-08-09T00:00:00+02:00 da IZ Informatore Zootecnico
Normativa-Art62 - Ultima modifica: 2013-09-23T14:36:03+02:00 da IZ Informatore Zootecnico

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