La trasformazione di alimenti fibrosi non digeribili dall’uomo, in prodotti invece da lui facilmente consumabili, è una capacità dei ruminanti dall’inestimabile valore quando si parla di “food security” cioè la possibilità di garantire, in modo costante e generalizzato, acqua ed alimenti per soddisfare il fabbisogno energetico di cui l’organismo necessita per la sopravvivenza e la vita.
Attualmente, e verosimilmente anche molto di più nel prossimo futuro, il sistema agro-alimentare si trova stretto nella morsa composta dall’incremento demografico mondiale con il conseguente aumento della domanda di alimenti, e dalla contemporanea riduzione della superficie coltivabile. La banale ed intuitiva soluzione a tale problema è quella di produrre più alimenti in modo più efficiente. Meno banale risulta invece attuare tale soluzione.
Un modo per implementare l’efficienza nella produzione degli alimenti di origine animale è quello di individuare ogni possibile strategia volta a migliorare l’efficienza di conversione degli alimenti e tale concetto è più che mai valido nei poligastrici dove proprio per l’attività fermentativa che si svolge a livello ruminale le perdite e gli sprechi possono risultare rilevanti penalizzando inoltre l’impatto ambientale del sistema produttivo agro-zootecnico. Per quanto riguarda ad esempio le lattifere, la proporzione di alimento convertito in latte risulta inversamente proporzionale alla quantità totale di alimento assunto ma non utilizzato e quindi eliminato nell’ambiente.
È comunque doveroso precisare che se in passato l’efficienza veniva valutata esclusivamente in termini di valore assoluto, aspetto che ovviamente penalizza i poligastrici nei quali gli alimenti subiscono un processo di fermentazione nel rumine prima dell’assorbimento, attualmente e a ragion veduta l’efficienza viene riponderata considerando il consumo da parte degli animali di alimenti in competizione o meno con l’uomo e che in tal senso l’efficienza dei ruminanti viene completamente rivalutata (Tabella 1).
Il metano escreto
Nel bovino, la principale forma di perdita di efficienza è rappresentata dal metano escreto come risultato delle fermentazioni microbiche ruminali.
Per quelle che sono le conoscenze attuali e i modelli per descrivere e stimare l’emissione di gas serra da parte dei ruminanti, sono tre i fattori che generalmente determinano la quantità di metano eliminato: la quantità di materia organica fermentata, l’efficienza di sintesi microbica intesa come la quantità di massa microbica che si forma per unità di materia fermentata, e il tipo di acidi grassi volatili generati come conseguenza dei fenomeni fermentativi. Questi tre fattori sono strettamente connessi uno all’altro e generalmente ciò che ne influenza uno, risulta in grado di modulare complessivamente le emissioni di metano.
Opportune strategie alimentari sono in grado di influenzare i sopraddetti fattori andando a modulare alcuni punti chiave delle fermentazioni, come ad esempio la velocità di transito degli alimenti, la composizione del microbismo ruminale ed il pH. Le principali strategie nutrizionali di mitigazione dell’emissione di metano sono: bilanciare l’assunzione di sostanza secca in termini di rapporto foraggi e concentrati, aggiungere fonti di grasso nella razione, utilizzare specifici additivi in grado di ottimizzare le fermentazioni e aumentare la digeribilità dei foraggi (azoto a lento rilascio, oli essenziali, pre-probiotici).
I progressivi miglioramenti che hanno caratterizzato la zootecnia degli ultimi anni e non solo sotto l’aspetto della gestione nutrizionale ma anche in termini di ambiente, strutture, tecniche e tecnologie hanno contribuito a determinare una incredibile riduzione dell’impatto ambientale dell’allevamento (Figura 1), questo può arrivare a risultare persino miglioratore in quei casi in cui all’attività zootecnica si abbina la produzione di energie alternative.
Sostanza secca assunta e rapporto foraggi/concentrati
L’assunzione di sostanza secca è il principale fattore in grado di influire sull’emissione di metano. All’aumentare della quantità di alimento assunta dall’animale, aumenta inevitabilmente l’entità delle emissioni.
Andando però a modulare il rapporto tra foraggi e concentrati della dieta si può ridurre tale inefficienza ed è per tale motivo che gli allevamenti estensivi risultano più impattanti sull’ambiente rispetto a quelli intesivi. Situazione che pur sembrando paradossale è assolutamente veritiera, come appare chiaramente dalla Figura 2, da cui emerge come l’impatto ambientale della produzione di carne dei paesi europei risulta mediamente minore di quello di Argentina, Brasile e Australia. L’allevamento intensivo pertanto, se ben condotto, risulta più efficiente in termini di produttività e caratterizzato da una minore produzione di gas serra.
Grassi by-pass
Un’articolata meta analisi ha rivelato che le emissioni di metano vengono ridotte del 5,6% per ogni 1% di fonti di grasso supplementari grazie sostanzialmente all’aumento della densità energetica della dieta. Nel caso però di un tenore lipidico troppo elevato si provoca una riduzione di assunzione di sostanza secca e dell’efficienza di conversione alimentare.
Additivi
Attualmente e nonostante il grande interesse e la grande attenzione verso l’argomento, ancora limitate sono le elaborazioni dei modelli predittivi inerenti le emissioni di metano per i diversi e numerosi additivi potenzialmente in grado di esercitare effetti positivi sull’impatto ambientale nonostante il ruolo di alcuni di essi come i lieviti, l’azoto a lento rilascio e alcuni oli essenziali sia già stato studiato e in parte anche quantificato.
Relativamente ai lieviti, la riduzione di metano è da attribuire allo stimolo che essi esercitano sulla crescita dei batteri produttori di acetato i quali competono con i batteri metanigeni ed i protozoi per gli idrogenioni (H2+) limitando pertanto la produzione ed eliminazione di metano nell’ambiente. In futuro l’individuazione e la selezione di ceppi di lieviti specifici per la riduzione della produzione di metano potrà incrementare notevolmente i risultati ad oggi evidenziati (Tabella 2).
Lieviti, ma quali?
I lieviti sono funghi unicellulari in grado di promuovere efficacemente le fermentazioni ruminali e di apportare numerose sostanze nutritive. L’uomo da migliaia di anni utilizza questi microrganismi per ottenere la lievitazione del pane e per fermentare le bevande alcoliche. Solo in tempi relativamente recenti, però, le specie di lieviti responsabili di questi processi sono stati separati in colture pure e studiati per un uso più controllato e consapevole. Il Saccharomyces cerevisiae ha trovato largo impiego anche nel settore mangimistico dove viene utilizzato come additivo nelle diete di diversi animali di interesse zootecnico.
Il lievito assume importanza nutrizionale in quanto presenta un contenuto medio sulla sostanza secca, del 40% di proteine, 25% di polisaccaridi, 15% di acidi nucleici, e 15% di lipidi, oltre a nucleotidi, aminoacidi, vitamine e minerali. Di notevole interesse è l’apporto di vitamine del gruppo B, in particolare di B1 ,B2, B6, PP ed acido pantotenico. I lieviti presentano inoltre un buon contenuto di aminoacidi come lisina ed acido glutammico.
I lieviti sono degli eccellenti apportatori di enzimi quali maltasi, sucrasi, esochinasi, lattico-deidrogenasi, piruvato-chinasi, fosfoglicerato-chinasi, fosfoglucosio-isomerasi, piridossal-chinasi, tiamina-chinasi e flavochinasi, ossia gli enzimi attivamente coinvolti nel metabolismo glucidico e nella formazione di fattori coenzimatici.
I lieviti sono efficaci nello stimolare la microflora ruminale, in tale sede infatti, grazie appunto agli enzimi prodotti, sono in grado di stimolare la crescita e l’attività di determinate categorie di batteri ruminali. L’azione positiva sui microrganismi del tratto gastrointestinale si traduce in un aumento del numero dei batteri totali e in una maggiore attività cellulosolitica.
La conseguente migliore utilizzazione della quota fibrosa della razione consente un aumento della concentrazione di acidi grassi volatili nel fluido ruminale senza però determinare variazioni nel rapporto acetato/propionato. Come conseguenza della maggiore velocità di degradazione ruminale della fibra, si determina un aumento indiretto dell’assunzione alimentare.
I lieviti riescono anche a esercitare direttamente uno stimolo sull’appetito, grazie all’azione aromatizzante di alcuni componenti cellulari quali acidi nucleici e derivati dell’acido glutammico.
Sono in grado di limitare il rischio di acidosi stabilizzando il pH ruminale. I lieviti vivi in sede ruminale consumano ossigeno, condizione che rende il rumine più riducente e conseguentemente favorisce l’attività di diverse importanti famiglie di batteri cellulosolitici anaerobi stretti, alla base di un più efficiente utilizzo dell’ammoniaca che viene utilizzata per le sintesi microbiche invece che permanere in forma libera maggiormente tossica.
Occorrono certamente ulteriori approfondimenti per quantificare la riduzione delle emissioni di gas serra conseguenti all’utilizzo di lieviti o altri additivi nell’alimentazione dei ruminanti. La riduzione delle emissioni di metano è certamente un cosiddetto “hot topic” della ricerca in campo agro-zootecnico; e a causa della complessità dell’ambiente ruminale, i ricercatori dovranno affrontare numerose sfide e superare molti ostacoli prima di trovare la soluzione ottimale per questo delicato argomento.
* Gli autori sono dell’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza Alimentare (Vespa).
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