Quanto impatta davvero l’allevamento bovino

allevamento bovino
Guardando oltre i noti, artificiosi luoghi comuni. Questa attività in Italia è parte integrante della sostenibilità ambientale, economica e sociale. E non spreca risorse idriche. Ma deve combattere contro le solite fake news.

In Italia molte fonti di informazione cercano di convincere i consumatori che eliminare la carne dalla propria alimentazione salverebbe il pianeta, sostenendo che gli allevamenti sono i principali responsabili dell’inquinamento ambientale, o ancora che gli allevamenti depauperano il pianeta di risorse naturali come l’acqua e sottraggono spazio all’agricoltura. Queste posizioni, tuttavia, derivano da una parziale e fuorviante lettura dei dati scientifici e contribuiscono ad alimentare, presso l’opinione pubblica, una pericolosa spirale di fake news.
Ma in base ai dati forniti da organizzazioni quali la Fao e l’Ispra e da altri solidi studi, il quadro che si delinea è ben diverso e decisamente meno drammatico: il mondo della carne non è affatto la principale causa dell’inquinamento né è responsabile dello sperpero di risorse quali l’acqua.
Viceversa, gli allevatori hanno da tempo sottoscritto un vero e proprio patto con la natura e con i suoi cicli, un equilibrio che potrebbe essere gravemente compromesso se anche solo uno dei tasselli che lo compongono venisse meno. È venuto insomma il momento di fare chiarezza, perché nulla come un’informazione corretta e completa rende liberi di compiere scelte pienamente consapevoli.

Carbon neutrality

Ora, alla domanda su quale sia la vera entità dell’impatto ambientale dell’allevamento bovino in Italia ha recentemente risposto il professor Giuseppe Pulina, dell’Università di Sassari, con un paio di interventi sul sito internet lastoriadiunerbivoro.it.
Nel primo dei suoi interventi su questo sito il docente spiega: diversamente dalle fuorvianti informazioni che si trovano sul web, nel suo complesso la filiera delle carni bovine non ha un elevato impatto in termini di emissioni di anidride carbonica (CO2), ma anzi sembra partecipare al raggiungimento della neutralità climatica.
Quando si valuta l’impatto delle emissioni di gas a effetto serra dell’allevamento bovino, continua Pulina, è necessario considerare tanto la fase di allevamento quanto le fasi precedenti, come quella della produzione degli input agricoli necessari ad alimentare i bovini.
Le piante presenti nei terreni destinati al pascolo e quelle coltivate appositamente per l’alimentazione bovina, infatti, “presentano un potenziale di riduzione delle emissioni di carbonio davvero notevole e sottovalutato”. Bisogna considerare infatti il processo noto come fissazione del carbonio: grazie alla fotosintesi clorofilliana, la vegetazione presente e coltivata nelle aziende zootecniche cresce assorbendo anidride carbonica e rilasciando ossigeno e in tal modo sottraggono carbonio all’atmosfera, contrastando l’effetto serra (3).
In Italia, ad esempio, dice il docente sassarese, “considerando le emissioni prodotte dagli animali e confrontandole con la capacità delle produzioni di mangimi di assorbire CO2, emerge chiaro come la filiera zootecnica, nel suo complesso, non contribuisca all’aumento dei gas a effetto serra in atmosfera ma anzi si bilanci da sola. Questa caratteristica è nota come carbon neutrality”. La carbon neutrality è la capacità di compensare l’impatto dei gas tra una fase e l’altra della catena produttiva arrivando ad avere emissioni nette zero di anidride carbonica (1).

Carbon footprint

E come quantificare le emissioni di CO2? Spesso per farlo, continua Pulina, viene usata la carbon footprint. Si tratta di una misura che esprime la totalità delle emissioni di gas associate direttamente o indirettamente a un prodotto, un’organizzazione o un servizio (3).
Grazie a questa misura tutti i gas che hanno un effetto sul cambiamento in atmosfera vengono convertiti in CO2 equivalente (CO2eq), in tal modo si ottengono valori confrontabili tra loro e si possono quantificare numericamente le emissioni.

Carni bovine, filiera virtuosa

In un suo secondo intervento sul sito internet lastoriadiunerbivoro.it, il docente dell’Università di Sassari approfondisce i concetti esposti sopra, arrivando ad affermare in conclusione che la filiera italiana delle carni “è tra le produzioni animali più virtuose al mondo”.
E ricorda come, per far fronte all’aumento mondiale della domanda di prodotti di origine animale, rispettando l’ambiente, la zootecnia italiana stia “re-ingegnerizzando i propri processi produttivi. Questo con l’obiettivo di ridurre le emissioni, limitare i consumi di acqua, migliorare il benessere degli animali e degli operatori di settore”, mantenendo comunque elevati gli standard di sicurezza alimentare e di sostenibilità (nella sua triplice accezione: ambientale, sociale ed economica).
Infatti le filiere delle carni “dovranno garantire prodotti accessibili a tutte le fasce di reddito senza dimenticare l’importanza di preservare le tradizioni locali e il paesaggio rurale che le ospita. In questo l’Italia, negli ultimi anni, si è già dimostrata un Paese vincente, soprattutto per i progressi fatti nella filiera delle carni bovine circa le emissioni in atmosfera” (4).
E ritornando alla questione della riduzione delle emissioni da parte dell’allevamento bovino in Italia, Pulina ribadisce: “Dal confronto effettuato tra l’impronta di carbonio della produzione delle carni bovine italiane rispetto alla media mondiale (5), emerge chiaro come le emissioni del settore bovino italiano siano meno della metà rispetto alla media delle emissioni degli altri Paesi (10,4 vs 25,3 kg di CO2 per kg di carne), ponendo il nostro Paese fra i più virtuosi al mondo (4)”.

E le foraggere mitigano

E non c’è solo questo dato positivo, aggiunge il professore.
È anche interessante notare come, spesso, nella valutazione della filiera bovina, venga sottovalutato il potere di mitigazione delle emissioni operato dalle colture foraggere.
Queste infatti, grazie alla fotosintesi, “hanno un potere di fissazione di carbonio in grado di compensare le emissioni di gas serra delle fasi successive, portando il sistema nel suo complesso a bilanciarsi e partecipare alla carbon neutrality” (6).

Metano e protossido di azoto

Inoltre questo obiettivo, continua il docente sassarese, dovrebbe basarsi su una distinzione più attenta fra i diversi gas a effetto serra, poiché questi hanno un impatto differente in termini di emissioni e permanenza in atmosfera.
Per convenzione le emissioni di gas a effetto serra sono espresse in peso di CO2 equivalente (CO2eq) secondo il potenziale di riscaldamento globale (gwp), un valore attribuito ai diversi gas da standard fissi (7). Per i gas emessi dal settore dell’agricoltura e dell’allevamento, oltre all’anidride carbonica (CO2) vengono considerati determinanti anche il metano (CH4), che equivale a 28 CO2eq, e il protossido di azoto (N2O), che equivale a 267 CO2eq.
Questi valori fissi, tuttavia, “non considerano la differente emivita di questi gas in atmosfera, ovvero il tempo necessario affinché la concentrazione di una sostanza si riduca a metà di quella iniziale.
A tal proposito, CO2 e N2O, permangono in atmosfera per diverse centinaia di anni, mentre il metano, principale gas climalterante attribuito all’allevamento, ha un’emivita di soli 8,6 anni, un tempo non sufficiente affinché il gas si accumuli in atmosfera e pertanto non in grado di contribuire realmente al riscaldamento globale”.
Considerando così il perdurare del gas in atmosfera, “dal confronto tra le emissioni di CH4 del sistema italiano negli ultimi trent’anni (8), è dunque facile capire quanto in realtà questo dato presenti un tasso di riduzione tale (-0,66%), da partecipare addirittura alla soluzione del problema del riscaldamento globale” (4).


BIBLIOGRAFIA

1. Ipcc. (2018). Annex I: Glossary [Matthews, J.B.R. (ed.)]. In: Global Warming of 1.5°C. An Ipcc Special Report on the impacts of global warming of 1.5°C above pre-industrial levels and related global greenhouse gas emission pathways, in the context of strengthening the global response to the threat of climate change, sustainable development, and efforts to eradicate poverty.
2. Ciccarese, L., & Kloehn, S. (2010). La capacità fissativa di carbonio nei prodotti legnosi: una stima per l’Italia. Agriregionieuropa, 6, 21.
3. Ministero della Transizione Ecologica (2022). Cos’è la «carbon footprint»? https://www.mite.gov.it/pagina/cose-la-carbon-footprint
4. Pulina, G.La sostenibilità della produzione delle carni in Italia. Giuseppe Pulina
5. Fao, (2021). Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). https://www.fao.org/gleam/en/
6. De Vivo, R., & Zicarelli, L. (2021). Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality. Translational Animal Science, 5(3), txab042.
7. Ipcc, 2019. Climate Change and Land. https://www.ipcc.ch/srccl/.
8. Ispra, 2021. Italian greenhouse gas inventory – 1990-2019. Ispra, Rapporti 341/21. Isbn 978-88-448-10467.

Quanto impatta davvero l’allevamento bovino - Ultima modifica: 2022-10-19T10:54:58+02:00 da Lucia Berti

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