Mancano due anni all’apertura dell’Expo di Milano e l’offerta che questa grande manifestazione può presentare agli imprenditori zootecnici italiani ha contorni ancora un po’ indefiniti, i contenuti inevitabilmente restano ancora un po’ sul vago. Eppure lo slogan dell’Expo 2015 promette teoricamente molto, anzi moltissimo, al mondo della produzione animale: “Nutrire il pianeta”.
Per questo abbiamo provato a chiedere a Vittorio Dell’Orto, docente a Veterinaria Milano, che tramite l’università sta collaborando a fondo con gli organizzatori dell’evento, se tra le pieghe dei lavori in corso non stia per caso già emergendo qualcosa di concreto per gli allevatori. Almeno per quelli che producono carne, comparto nel quale Dell’Orto ha una competenza specialistica.
«La risposta è quasi sì. Qualcosa di preciso c’è già. Forse più per il momento agroindustriale, e del relativo commercio, che non per il momento della produzione primaria. Si tratta di una esposizione di carattere internazionale e dal momento che si tiene con cadenza pluriennale (nel 2010 si è tenuta a Shanghai, nel 2012 a Yeosu in Corea del Sud, nel 2017 avrà luogo ad Astana in Kazakhstan...) si tratta di un evento di carattere eccezionale. E’ dedicata all’alimentazione umana, la visiteranno operatori professionali da tutto il mondo, già oggi gli sponsor, o meglio i “global partner”, sono numerosi... Inevitabile che le aziende agroindustriali italiane e i grandi commercianti di prodotti agroalimentari vi ci vedano una irripetibile occasione di business. O almeno di marketing: potranno farsi conoscere da buyers, o da possibili nuovi partner commerciali, con cui altrimenti non entrerebbero in contatto».
Ma non ci potrebbe essere qualche opportunità precisa, concreta, anche per gli stessi allevatori?
«Come dicevo, a mio avviso la risposta è quasi sì. Rimanendo sugli aspetti commerciali, all’Expo gli allevatori italiani potrebbero dare visibilità ai propri prodotti finiti. Intendo dire che potrebbero farlo direttamente, senza il filtro degli industriali o dei commercianti. Guardiamo per esempio qual è il limite oggi della commercializzazione della carne bovina: al supermercato questa appare solo come “bovino adulto” e “scottona”, o come “nazionale” o “francese”. Invece per far capire cos’è la cucina italiana, l’italian style, dovremmo far capire che quando viene “smontata” una scottona ogni pezzo ha una sua particolare destinazione. Questo tipo di comunicazione però oggi non la fa l’allevatore, oggi chi presenta la carne è il cuoco, o l’industriale. Invece anche l’allevatore deve riuscire a farla, altrimenti la carne italiana è persa, anche perchè questa è per il 50% prodotta con animali importati dalla Francia; e dovremmo lavorare unicamente sulle razze autoctone».
Insomma, aprire un rapporto diretto tra allevatori italiani di bovini da carne e consumatori finali.
«L’Expo potrebbe permettere di farlo. La cosa potrebbe valorizzare la produzione zootecnica italiana, aprire un nuovo tipo di rapporto tra l’allevatore e il consumatore. L’allevatore deve diventare protagonista nella presentazione del proprio prodotto, altrimenti ci penserà l’industria».
Altre strade pratiche?
«I produttori zootecnici italiani potrebbero sfruttare le entrature internazionali di parmigiano, grana e prosciutto per far conoscere ai buyers esteri anche altri prodotti di origine animale. Oppure gli allevatori potrebbero seguire l’esempio dei viticoltori e degli olivicoltori, o collaborare con loro: questi restano agricoltori, ma riescono a far conoscere la propria produzione in tutti i paesi del mondo (anche se è vero che gli agricoltori che oggi guadagnano con l’export restano quelli che possono presentare prodotti dotati del valore aggiunto della trasformazione). Infine vedo un’altra possibilità, molto precisa e immediata, per innescare un rapporto diretto tra gli allevatori italiani e i visitatori dell’Expo, una possibilità che vedrebbe protagonisti i figli degli stessi imprenditori zootecnici».
I figli degli allevatori?
«Sì. All’Expo di Milano assumono 10mila steward. L’allevatore, che non può tanto distrarsi dal lavoro quotidiano in azienda per mettersi a cercare partner esteri, potrebbe proporre al figlio di far domanda di assunzione come steward. Così quest’ultimo potrebbe intessere nuovi rapporti, diretti, pratici, con gli operatori di altri Paesi; prevedendo anche visite reciproche alle rispettive aziende. Gli olandesi e gli svizzeri stanno già vendendo pacchetti viaggi in Italia: potrebbe risultare assai interessate per gli imprenditori italiani coinvolgere questi visitatori nel dopo-Expo, innescare scambi anche culturali tra figli di allevatori».
La filiera zootecnica italiana potrebbe avvantaggiarsi anche della possibilità di spedire all’estero dei tecnici, magari grazie ai contatti realizzati all’Expo?
«Questo lo stanno già facendo i tecnici della cooperazione internazionale. Ma dopo 5-6 anni rientrano in Italia perché nei paesi in via di sviluppo non riescono a mantenersi. La loro azione sembra efficace, più che praticamente sul territorio, solo sul piano educativo. Potrebbero risultare molto più operativi invece i figli degli allevatori».
E i tecnici delle industrie attive in zootecnia?
«Quello che ho visto è questo: i tecnici delle industrie vanno nei paesi in via di sviluppo, montano impianti di mungitura o altre installazioni e poi vanno via. Oppure abbiamo fabbri italiani che vanno in Cina a costruire rastrelliere, o gabbie per scrofe… ma nessun rapporto continuativo. Ci guadagna l’indotto zootecnico italiano, più che l’allevatore. Se invece andasse sul posto il figlio di un allevatore potrebbe instaurare iniziative produttive molto più stabili e durature, seguendo come già accennato l’esempio dei produttori italiani di olio o vino».
Tra i vari settori della zootecnia, bovini, suini, pollame, pesce... qual è quello che offre maggiori possibilità di espansione nei Paesi in via di sviluppo?
«Quello degli animali piccoli, come polli o pesci, anche se in avicoltura domina il seme inglese e olandese, e in piscicoltura la presenza dei giapponesi. Comunque è l’allevamento di animali di piccole dimensioni, quali pesci e polli, che possono quindi essere consumati senza ricorrere alla catena del freddo, che ha le più concrete possibilità perché permette di produrre dosi di carne dimensionate all’utilizzo familiare».
Per gli imprenditori zootecnici l’Expo non sarà soltanto un’occasione per incontrare possibili partner esteri. L’evento offrirà anche l’opportunità di acquisire nuove conoscenze sui trend produttivi o di mercato...
«La parte convegnistica e accademica sarà sicuramente molto vasta. Per quanto riguarda l’Università di Milano, abbiamo avviato un dottorato di ricerca in Nutrizione, aperto anche agli studenti stranieri (coordinato dal professor Gian Vincenzo Zuccotti, pediatra, Università di Milano) e stiamo organizzando due convegni per Expo 2015: un meeting nazionale sulla produzione animale (coordinato dalla professoressa Antonella Baldi, di Veterinaria Milano) e un convegno sulla precision farming (coordinato dalla professoressa Marcella Guarino, di Veterinaria Milano)». La precision farming, o per il nostro settore la Plf (precision livestock farming, zootecnia di precisione, vedi box), si presenta infatti come una delle principali tendenze del settore, investendo tanto la questione costi di produzione quanto la questione impatto ambientale.
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