Il primo dicembre scorso è stato inaugurato l’impianto di biometano dell’azienda agro zootecnica Pieve Ecoenergia sca, di Cingia de’ Botti, in provincia di Cremona. Un impianto per la raffinazione e l’immissione in rete di biometano prodotto partendo da reflui aziendali e scarti di lavorazione.
«Il nostro obiettivo è disinquinare producendo latte», ha detto l’allevatore Danio Federici introducendo la visita a questa azienda, che gestisce con altre due famiglie. Danio Federici è vicepresidente di Granarolo e appunto responsabile di Pieve Ecoenergia. Questa azienda è associata alla filiera Granlatte Granarolo.
L’inaugurazione dell’impianto di biometano è avvenuta alla presenza del sindaco di Cingia de’ Botti, del direttore generale di Granlatte Isaia Puddu e del presidente di Granarolo Gianpietro Calzolari.
Spiega Federici: «Abbiamo un potenziale di 320 metri cubi l’ora, vale a dire 2,7 milioni di metri cubi l’anno: approssimativamente il fabbisogno energetico annuo di 600 famiglie. Con il nostro biometano, inoltre, eviteremo di immettere in atmosfera 6.350 tonnellate all’anno di anidride carbonica equivalente».
Il biometano sarà immesso direttamente in rete. Oltre al biometano, l’impianto restituirà il digestato, fertilizzante agricolo di alta qualità che soppianterà i concimi chimici utilizzati dall’azienda. L’azienda vanta anche una stalla modernissima, mille ettari di terreni coltivati con le tecniche dell’agricoltura conservativa e due impianti di biogas a destinazione elettrica, attivi da oltre un decennio e che in un prossimo futuro saranno riconvertiti anch’essi al biometano.
Nel complesso, e una volta a regime, aggiunge Federici, Pieve Ecoenergia catturerà più carbonio di quello che emette per coltivare i campi e allevare quasi duemila bovini. Impossibile? L’Università di Milano, che sta conducendo uno studio su questa realtà, sembrerebbe dire il contrario. «La conferma arriverà quando avremo i risultati. A ogni modo è sicuro che la produzione di biometano e le nostre pratiche di allevamento ed economia circolare riducano fortemente le emissioni e rendano la zootecnia sostenibile».
La campagna
L’azienda è un esempio di economia circolare: coltivazioni, allevamento e settore agro-energetico. I mille ettari di terreno gestiti dalla Pieve Ecoenergia sono coltivati con mais, triticale e cereali vernini, ma anche mais dolce, soia e pomodori. Su metà della superficie si pratica il secondo raccolto, anche per avere biomassa con cui alimentare l’impianto di biogas. «Usiamo, per il biogas, soltanto colture di secondo raccolto, essenzialmente triticale. Per il resto, funziona con reflui aziendali e sottoprodotti», precisa Giulio Federici, figlio di Danio.
La coltivazione segue le ultime tendenze dell’agricoltura conservativa: «Abbiamo abbandonato l’aratura da ormai sei o sette anni. Pratichiamo la coltivazione per bande – meglio nota come strip tillage, ndr – e concimiamo i terreni essenzialmente con il digestato dei nostri impianti. Interriamo tutto per ridurre al minimo la dispersione di ammoniaca in atmosfera», aggiunge il padre.
L’allevamento
Descrivere le stalle significa raccontare l’evoluzione dell’azienda in questi ultimi anni. Due i corpi produttivi: il primo è quello storico ed è gestito con criteri abbastanza tradizionali: 300 capi in lattazione, mungitura e alimentazione manuali.
Accanto a esso ne è sorto uno nuovo, inaugurato nel febbraio 2021, che ospita 600 capi in lattazione ed è dotato della massima tecnologia possibile in zootecnia. Le vacche sono infatti munte da dieci robot e costantemente controllate grazie ai collari. «Durante la mungitura – spiega Danio Federici – il robot rileva peso e temperatura corporea dell’animale, oltre a conducibilità, grassi, proteine e colore del latte. Sono informazioni sufficienti a dare un quadro molto preciso della salute di ogni capo».
L’allevatore aggiunge: «Abbiamo una media di 3,2 mungiture per capo, il che significa che ci sono animali che si fanno mungere anche cinque volte al giorno. Io la chiamo anarchia bovina, perché lasciamo alle vacche massima libertà di seguire i loro istinti». L’alto numero di mungiture favorisce la produzione di latte, che nella nuova stalla supera sensibilmente le medie della parte storica. Nel complesso, l’azienda conferisce a Granarolo 12mila tonnellate di latte all’anno.
Anche l’alimentazione è automatizzata, grazie a due Afs (robot) della Trioliet: mezzi autonomi, alimentati a batteria, che distribuiscono il cibo miscelato da una cucina anch’essa autonoma. I sili «sono collegati con il mangimificio, per cui, senza muoversi dall’ufficio, l’agente di zona sa quando è il momento di mandarci il camion coi rifornimenti».
Sempre in merito all’alimentazione degli animali, Giulio Federici spiega: «Forniamo la razione a più riprese, dando ogni volta poco alimento. In questo modo le vacche hanno un unifeed sempre fresco e collocato vicino alla mangiatoia. Inoltre non vi è competizione, perché tutte hanno il tempo di mangiare, anche gli animali più remissivi».
I robot effettuano otto passaggi al giorno, distribuiti nell’arco delle 24 ore. «Una suddivisione che sarebbe impossibile replicare con il semplice lavoro dell’uomo. Allo stesso modo, nessun operatore umano potrebbe allattare i vitelli come fa il sistema automatico che abbiamo in vitellaia».
La vitellaia
Una stalla all’ultimo grido non poteva infatti accontentarsi di una vitellaia tradizionale. Quella di Pieve Ecoenergia è contenuta in un capannone chiuso e dotato di corridoio centrale con due file di capannette riscaldate.
A colpire, tuttavia, è soprattutto il sistema di alimentazione, che come abbiamo anticipato è completamente automatico. «Noi ci limitiamo a caricare il latte in polvere, al resto pensa la macchina», spiega il figlio del titolare. Due robot su binario percorrono la corsia, fermandosi davanti a ogni cuccetta. Sono costituiti da un braccio collegato al serbatoio da una tubatura e terminante in una tettarella in gomma. I vitelli, ormai abituati alla loro presenza, si sporgono dalla gabbia e succhiano il latte.
«In natura i bovini si alimentano dalla madre fino a 12 volte al giorno. Con questo sistema cerchiamo di replicare questa consuetudine, anche se limitiamo a sei i passaggi giornalieri dell’alimentatrice. In ogni caso sono molti di più di quelli che farebbe un essere umano, anche se dedicasse molto tempo alla vitellaia». Durante l’allattamento, i robot misurano la velocità di suzione di ogni vitello: «È un buon indice della salute dell’animale», spiega Danio.
Le strutture
In precedenza, lo stesso Federici aveva individuato in mungitura, alimentazione e strutture gli elementi che contribuiscono ad aumentare la resa produttiva. Riguardo a queste ultime, l’allevatore fa notare l’ampia disponibilità di spazio, che è circa il triplo rispetto a una stalla tradizionale.
Un sovradimensionamento evidente soprattutto nelle aree di gestazione. «Le ultime tre settimane sono fatte su paglia, in modo che gli animali siano tranquilli e liberi di organizzarsi per il parto. Crediamo infatti che la permanenza sulle cuccette, che per forza sono almeno in parte costrittive, possa ostacolare il corretto posizionamento del feto. Lo dimostra il fatto che da quando seguiamo questa tecnica, i problemi al parto si sono ridotti drasticamente».
Subito dopo il parto, i vitelli restano con la madre per qualche ora, giusto il tempo di asciugarli, e passano poi alle cuccette riscaldate.
Le agro-energie
«Quello che inauguriamo oggi (primo dicembre, giorno della nostra visita, ndr) è il terzo impianto di biodigestione. Il primo fu attivato nel 2009, il secondo, anch’esso da 1 mW elettrico, tre anni dopo. Per questi due tra breve scadrà il periodo di tariffa incentivata, per cui pensiamo di convogliare il loro biogas in questo terzo impianto, che produce biometano».
Danio Federici introduce così il settore agro-energetico dell’azienda di cui è contitolare. «Grazie alle agro-energie la nostra società ha indubbiamente cambiato marcia, ampliandosi notevolmente. Con il biometano avviamo una nuova fase, che ci porterà a un bilancio di carbonio negativo, nel senso che estrarremo dall’atmosfera più carbonio di quanto ne immettiamo con coltivazioni e allevamento».
I primi due digestori, come ha ben spiegato l’allevatore, sono di tipo tradizionale e producono elettricità. Il terzo, invece, estrae biogas da reflui e sottoprodotti, ma quest’ultimo subisce poi un secondo processo, l’upgrading o raffinazione, che separa il metano dall’anidride carbonica, ottenendo il cosiddetto biometano.
L’upgrading è realizzato tramite filtri a membrana, tecnologia che sembra andare per la maggiore in questa fase iniziale di sviluppo degli impianti di biometano da fonte agricola. Nell’impianto di upgrading il biogas passa attraverso i filtri a membrana e si depura dall’anidride carbonica.
«Una volta raffinato, il gas è compresso e immesso nella rete Snam, che passa a circa tre chilometri da qui. L’ostacolo principale, al di là delle tecnologie necessarie e dell’onerosità dell’investimento, è stato sicuramente ottenere tutti i permessi: un iter che ci è costato tre anni di tempo». La produzione stimata è di 320 metri cubi l’ora di biometano, pari a circa 1,3 mW elettrici.
Un ciclo integrato
Al di là degli aspetti tecnici, è però interessante l’integrazione realizzata dalla Pieve Ecoenergia. I materiali inseriti nel digestore, per esempio, sono reflui aziendali, una piccola quota di coltivazioni di secondo raccolto e poi bucce di pomodoro e tutoli di mais dolce. «Non sono prodotti provenienti dall’esterno, ma frutto dei nostri terreni. Coltiviamo infatti – racconta Giulio Federici – pomodoro e mais dolce e le industrie di trasformazione ci restituiscono le bucce di pomodori e i tutoli del mais, che hanno un buon potere metanifero».
Una parte del biogas non è raffinata, ma utilizzata in un cogeneratore che produce 600 kW/h di energia elettrica, oltre che calore. «La prima serve per far funzionare tutta l’azienda: alimenta infatti le pompe che muovono e comprimono il biometano, i robot di mungitura, quelli di alimentazione e in genere tutta la stalla e i servizi annessi. Il calore invece – prosegue Danio – è impiegato per scaldare la biomassa presente nei digestori, ma anche per riscaldare le cuccette dei vitelli e l’acqua che bevono gli animali». Il calore prodotto dai vecchi digestori elettrici riscalda invece la casa di riposo di Cingia de’ Botti, realtà con cui Pieve Ecoenergia ha in essere una collaborazione ormai decennale.
Il digestato che esce dall’impianto, infine, è dapprima separato e poi utilizzato come fertilizzante. La parte solida, opportunamente trattata, si impiega invece come lettiera nelle cuccette: un altro anello di quella catena circolare al cui centro c’è oggi Pieve Ecoenergia.
«Vacche e batteri producono latte ed energia. Questa è l’agricoltura del futuro: produttiva, ma anche sostenibile», ha concluso Danio Federici ringraziando gli intervenuti alla cerimonia.
Calzolari: il primo di una serie di impianti
Questo che abbiamo davanti, ha commentato il presidente Granarolo Gianpiero Calzolari, «è un esempio di ciò che i nostri soci possono fare per aiutare non soltanto a sfamare il mondo, ma anche a renderlo più pulito. Sbaglia chi crede che l’agricoltura sia soltanto fonte di inquinamento: i primi a essere preoccupati per i cambiamenti climatici sono proprio gli agricoltori. Con iniziative come quella di Federici, l’agricoltura da problema si trasforma in una parte della soluzione. Il nostro obiettivo è di avere, come Granarolo, almeno dieci impianti come questo, grazie ai quali raggiungere l’equilibrio carbonico tra emissioni e CO2 catturata».
«Il primo impianto di biometano agricolo della nostra filiera rappresenta uno stimolo per la messa a terra di ulteriori progetti di agroecologia», ha aggiunto Calzolari. «Un esempio è il progetto Biometano di filiera, ideato e annunciato con la Confederazione dei bieticoltori Cgbi e che vedrà la realizzazione di dieci impianti consortili in tre anni dislocati in Emilia Romagna, Lombardia, Friuli e Puglia. Essi produrranno 30 milioni di metri cubi anno di metano, cioè l’equivalente di ciò che serve in termini di energia termica negli stabilimenti italiani di Granarolo, 500mila t annue di fertilizzante naturale (il digestato), evitando l’emissione in atmosfera di 60mila t di CO2 eq, quanto generato per l’illuminazione pubblica annua di una città di 867mila abitanti come Torino».