La Corte di Giustizia dell'Ue ha condannato l'Italia per non aver applicato entro il termine la Direttiva sulle galline ovaiole allevate in gabbie non modificate. La sentenza, emessa il 22 maggio 2014, ha infatti accolto in pieno il ricorso che la Commissione aveva presentato nei confronti dell'Italia per chiederne la condanna per il mancato recepimento della Direttiva.
Il dispositivo della sentenza stabilisce che la Repubblica italiana, non avendo garantito che, a partire dal 1° gennaio 2012, le galline ovaiole non fossero più tenute in gabbie non modificate, è venuta meno agli obblighi degli articoli 3 e 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/74/Ce del Consiglio, del 19 luglio 1999, che stabilisce le norme minime per la protezione delle galline ovaiole. E inoltre è condannata al pagamento delle spese processuali.
Entro tale data, infatti, tutte le gabbie di batteria in cui venivano allevate le galline per la produzione di uova dovevano essere modificate secondo i parametri stabiliti dalla direttiva europea del 1999, consistenti in misure più “ampie”, arricchimenti ambientali e la possibilità di permettere comportamenti etologici tipici della specie.
La vicenda processuale mette in evidenza che l'Italia non ha mai contestato tale situazione di inadempienza ma addirittura, in risposta alla prima contestazione della Commissione che aveva aperto la procedura d'infrazione, si era limitata a indicare che tutte le aziende italiane coinvolte sarebbero state allineate ai requisiti derivanti dagli articoli 3 e 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/74 solo a partire dal 1° luglio 2013.
La Commissione ha dichiarato di riconoscere che le misure adottate dalla Repubblica italiana per porre fine all'inadempimento contestato, e, in particolare quelle volte a limitare la commercializzazione delle uova provenienti dalle aziende non in regola al solo territorio nazionale, abbiano consentito di ridurre l'impatto di tale inadempimento; però rileva che alla data del 4 dicembre 2012, e cioè a un anno dall'entrata in vigore della norma, 239 aziende allevavano ancora sul territorio italiano 11.729.854 di galline in gabbie non modificate.
A sua difesa l'Italia ha fatto presente che riteneva di avere adempiuto agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 1999/74 mediante l'emanazione del decreto legislativo n. 267/2003, che prevede il divieto, a decorrere dal 1° gennaio 2012, dell'utilizzo di gabbie non modificate per l'allevamento di galline ovaiole. Ma subito dopo sempre a sua difesa, pur riconoscendo la natura perentoria e improrogabile del termine impartito, l'Italia afferma che non le era stato possibile intervenire e sanzionare in tempo utile il mancato adeguamento delle aziende (senza peraltro indicare i motivi di tale impossibilità).
Secondo l'Italia, in definitiva, la direttiva sarebbe stata resa applicabile solo alla fine del 2013 in quanto a quella data nessun allevamento sul territorio italiano utilizzava più gabbie non modificate, a eccezione di uno solo in Veneto, oggetto di un procedimento giudiziario ancora pendente.
La Corte, quindi, non ha fatto altro che accertare che oggettivamente vi era stata una formale inadempienza dello Stato Italiano e che questa era stata correttamente constata dalla Commissione. Tale conclusione, afferma la sentenza, non può essere messa in discussione dagli argomenti del Governo italiano (vertenti, in sostanza, sull'impossibilità pratica per le autorità italiane di applicare il divieto di gabbie non modificate prima del 1° luglio 2013).
Una volta giunti a questo accertamento, è irrilevante, afferma ancora la Corte nella sua sentenza, che l'inadempimento derivi dalla volontà dello Stato membro, dalla negligenza di tale Stato, oppure dalle difficoltà tecniche cui quest'ultimo abbia dovuto far fronte
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