L’Italia ha una malattia, il sentimento anti-impresa

sentimento anti-impresa
Gianpiero Calzolari
Si profilano pericolosi cortocircuiti in grado di compromettere il potenziale del Paese. Invece dovremmo poter giocare al meglio le nostre risorse per competere nel mondo senza doverci guardare le spalle dal fuoco amico. Ma l’antidoto c’è: lo studio e la competenza

Il sentimento anti-impresa che pervade il nostro Paese è il male che deprime gli sforzi di tanti imprenditori responsabili che si mettono in gioco, in un sistema Italia poco organizzato e incredibilmente ostile.
Il problema vero si manifesta quando la malattia contamina la politica, generando pericolosi cortocircuiti che compromettono il potenziale del Paese.
Cito alcune vicende che tengono banco in queste settimane.

Il sostegno all’export

Come è noto il presidente Trump, con il ricorso ritorsivo sui dazi, ha sferrato un duro colpo alle nostre esportazioni, mettendo a segno una iniziativa particolarmente apprezzata dalle imprese americane produttrici del cosiddetto italian sounding.
A fronte di questa ennesima barriera doganale (che per inciso è solo l’ultima di una lunga serie di difficoltà contrapposte alla libera circolazione delle nostre merci) l’Europa si è impegnata a finanziare il sostegno al nostro export.
L’agroalimentare italiano vive una crisi di consumi interni ormai strutturale, ma fortunatamente le esportazioni compensano profittevolmente il mercato domestico. Purtroppo davanti a noi si stagliano già le nuvole plumbee della Brexit che rischia di fare danni ancora più gravi dei dazi americani.
La Russia ce la siamo giocata con l’embargo. La Cina è un grande mercato potenziale ma ancora poco interessato ai nostri cibi di pregio.

La plastic tax

In questo contesto che vede acuirsi la grande preoccupazione per il comparto, esplode la bomba della plastic tax , lanciata fra le gambe di chi ogni giorno corre per la propria azienda e per il proprio paese.
Per come è stato proposto il nuovo tributo colpirebbe pesantemente l’agroindustria italiana, a vantaggio di chi vende in Italia cibo prodotto all’estero, senza produrre, di fatto, nessun beneficio ambientale.
La lobby del farmaco ha ottenuto l’esclusione dalla tassa e dunque, oltre al comparto della plastica e del packaging, a pagare saremo solo noi, chi produce pomodori, zucchine, insalate, affettato, latte, mozzarelle, succhi di frutta… .
Difficile interloquire con chi, avendo la responsabilità di promulgare leggi, non sente la responsabilità di farlo avendo prima studiando la materia, coinvolgendo gli operatori economici su cui le norme si abbatteranno.
Da un lato risorse pubbliche impiegate per sostenere l’agricoltura che rimane la prima voce di spesa della Comunità europea e dall’altro nuove tasse che mettono in ginocchio chi trasforma.
Non sto qui a spiegare che la plastica serve a preservare il cibo, in particolare i prodotti deperibili che devono arrivare integri sulla tavola di chi consuma e che tutto questo è normato da un insieme di prescrizioni igienico sanitarie europee e nazionali.
Abbiamo fatto sentire la nostra voce e voglio pensare che alla fine l’intelligenza prevarrà sulla incompetenza e la tassa dovrebbe sparire dal tavolo, ma che fatica lavorare in questo Paese.

La sugar tax

Cito poi un altro aspetto. Ci stiamo battendo, il Ministero, il mondo agricolo e l’agroindustria per scongiurare l’insidia delle cosiddette etichette a semaforo , nutri-score etc, che le grandi multinazionali e alcuni paesi europei stanno orchestrando per colpire il Made in Italy, i nostri cibi eccezionali rei di contenere proteine, zuccheri e grassi naturali.
Ecco allora che per dare una mano ai nostri competitori d’oltralpe viene in mente la sugar tax, colpo di grazia per l’unica realtà nazionale produttrice di zucchero e arma fantastica per chi sostiene che lo zucchero contenuto nei cibi italiani sia nocivo, legittimamente da contrastare in Europa visto che lo dice l’Italia per prima.

L’informazione

Cito ancora un’altra vicenda, sapendo che qui scendiamo in un terreno più insidioso ma non per questo da sottacere. La sicurezza alimentare dei nostri cibi non ha eguali al mondo. Cibi buoni e sicuri riconosciuti tali in tutto il pianeta hanno costruito una reputazione del Made in Italy solida, perché frutto di un saper fare unico, lungo tutta la filiera, dalla campagna agli stabilimenti e da una struttura dei controlli pubblici meticolosa e competente.
Non stiamo parlando della perfezione assoluta ma se siamo tanto apprezzati è perché siamo gente seria e capace, chi produce e chi controlla.
Da esserne soddisfatti e, lasciatemi dire, orgogliosi. Dietro questo primato c’è un lavoro enorme che vede impegnate migliaia di persone.
Allora mi chiedo perché alcune testate televisive si facciano un vanto di denigrare sistematicamente quello che è un punto di forza del nostro sistema economico, che per inciso è il secondo comparto produttivo nazionale e che occupa centinaia di lavoratori su tutto il territorio nazionale.
Non ha niente a che fare con il sacro diritto all’informazione plurale.
Ecco, plurale, ma è mai possibile che non sia doveroso, per chi fa informazione, alimentare il contraddittorio fra le tesi in campo? Possiamo dire, garbatamente, che spesso ci sembra di assistere alla messa in scena di tesi preconcette, per cui chi fa impresa, per definizione tende al profitto, a qualunque costo ed è quindi rappresentato come truffaldino ed opaco.
Si badi bene, le imprese in cui lavora gente per bene hanno tutto l’interesse a denunciare i comportamenti sbagliati di chi fa concorrenza sleale e compromette la credibilità di tutto il comparto e quindi non si deve evocare nessun tipo di censura. Solamente ci si aspetta il dovuto rispetto per chi facendo impresa crea occupazione, contribuisce alla propria comunità e lasciatemelo dire svolge il proprio lavoro con passione e con senso di responsabilità sociale.

Il fuoco amico

Ho fatto tre esempi, altri ne potremmo fare, che mi sembrano rappresentativi del cortocircuito di cui parlavo in premessa.
Se la tenuta del sistema economico del Paese potesse contare sulla necessaria considerazione da parte di ognuno, il nostro lavoro sarebbe un po’ meno gravoso e potremmo giocare al meglio le nostre risorse per competere nel mondo senza doverci guardare le spalle dal fuoco amico.
Mi permetto di indicare un antidoto alla malattia nella competenza. Studio e competenza consentono sempre di agire nel migliore dei modi.

L’Italia ha una malattia, il sentimento anti-impresa - Ultima modifica: 2020-01-24T09:42:07+01:00 da Lucia Berti

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