«Precision feeding è un termine oggi abbastanza in voga. Ma a ben vedere indica, se preso alla lettera, solo una parte dell’obiettivo che ci dobbiamo porre. Essere precisi significa infatti riprodurre sempre lo stesso risultato, raggiungere il medesimo obiettivo, ma si deve tenere presente che quel risultato potrebbe non essere quello corretto. Si può quindi essere precisi pur perseverando in un certo errore». Lo ha affermato con un po’ di ironia Paolo Bani (nella foto), ricercatore e docente presso l’Istituto di Zootecnia della Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, in occasione del convegno “Gestione della bovina in transizione: sviluppi tecnologici, alimentari e nutraceutici” organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con Pro Tech (azienda di Alessandria che opera nel settore della nutrizione animale).
L’obiettivo giusto
«La precisione non è quindi sufficiente - ha continuato il docente piacentino - e pertanto, oltre che precisi, è necessario essere accurati, ovvero riuscire a centrare l’obiettivo giusto. Definire quale sia l’obiettivo giusto rimane però un problema piuttosto complesso: non è facile infatti stabilire quale effettivamente sia la quantità corretta di energia, proteine, calcio, ecc., ma anche le fonti, la tipologia di questa energia (quanta da amido, quale tipo di amido), queste proteine (degradabilità, solubilità). In questo senso anche le indicazioni tecnico-scientifiche non sono sempre concordi. In questo ambito, sarebbe tra l’altro necessario precisare meglio l’effettiva velocità di fermentazione di alcune frazioni di carboidrati, a partire dall’amido. Personalmente ho più di un dubbio sulla correttezza di alcuni dei dati di fermentescibilità che si utilizzano in sede di razionamento».
Inoltre, ha aggiunto Bani, «risulta particolarmente importante mantenere la rotta verso il traguardo anche quando i fattori in gioco mutano. La disponibilità di alimenti, o la loro possibilità di impiego, è infatti condizionata da più di un fattore: il prezzo di mercato, l’effettiva disponibilità, la sicurezza del loro impiego (pensiamo ai problemi posti dalla possibile contaminazione da micotossine)». Così Bani spiega che per poter ottenere un reale miglioramento dei risultati con la “Precision Feeding”, regolando per esempio la modulazione dei fenomeni di fermentazione ruminale (al fine di evitare i problemi metabolici nelle bovine come i casi di acidosi), bisogna partire dal presupposto che è necessario conoscere il rumine e cosa accade al suo interno (in relazione alla micropopolazione ruminale e agli alimenti introdotti). “Altrimenti si naviga a vista, si può andare solo per tentativi, e le probabilità che vada bene sono ovviamente molto più scarse”.
Cosa accade all’interno del rumine
«Con riferimento ai processi digestivi che hanno luogo nel rumine, occorre innanzitutto chiarire quali sono i meccanismi che regolano il funzionamento di questo comparto. I fattori in gioco in questo caso sono almeno tre: - l’animale “proprietario” del fermentatore (il rumine appunto); - la razione, ossia la quantità, e qualità, di alimenti introdotti giornalmente; - la micropopolazione, che porta avanti i processi digestivi. Le difficoltà nel gestire questo sistema non mancano, data la complessità dei processi biochimici che avvengono nei prestomaci e la forte interconnessione con il substrato alimentare e l’organismo animale. Tralasciando la descrizione del microbiota ruminale, possiamo partire da alcuni assunti che siamo abituati a dare per assodati. Ad esempio, che dalla fermentazione di: - foraggi fibrosi si produce acido acetico; - concentrati amidacei (cereali) si ottiene acido propionico (e lattico); - zuccheri si genera acido butirrico».
Se questo può avere una validità generale, non è però sempre così, ha continuato Bani. «Si può infatti indurre acidosi ruminale subacuta mediante la somministrazione di sola erba medica, macinata e pellettata. Inoltre, si è visto che il quadro fermentativo di cereali consumati a basse dosi è analogo a quello che si registra quando si fermenta un foraggio. L’aggiunta di zuccheri semplici può poi aumentare, ma anche ridurre, la quota di acido butirrico a seconda del substrato di base, come anche noi abbiamo verificato lavorando con il siero di latte». Per spiegare queste (apparenti) contraddizioni, ha spiegato il docente della Cattolica, «dobbiamo considerare che, come in molti altri campi, non basta definire a quale categoria appartiene l’alimento che viene fermentato, ma sono importanti anche altri aspetti di tipo qualitativo e quantitativo. Esistono infatti importanti e ben note differenze nella velocità di fermentazione sia tra gli alimenti fibrosi (polpe > medica > loiessa), quanto tra quelli amidacei (orzo > mais > sorgo). Oltre alla rapidità con cui gli alimenti sono fermentati, altrettanto (o forse ancor più) importante è la quantità di materiale che viene fermentato in quanto è la combinazione dei due fattori che genera il “carico istantaneo” di acidi che governa in larga misura l’andamento delle fermentazioni».
Che tipo di fermentazioni avvengono all’interno del rumine? «Con qualche semplificazione, possiamo dire che nel rumine esistono due aree fermentative diverse ma complementari: da un lato quella che porta a formare acido acetico (il principale precursore del grasso del latte); questa produce un surplus di idrogeno che deve essere necessariamente smaltito. Nel rumine questo avviene in larga parte grazie alla produzione di metano, che poi è eruttato. La metanogenesi però è un processo piuttosto lento, che a volte non “tiene il passo” con le fermentazioni dei carboidrati e quando questo accade l’idrogeno si accumula. L’altra area di fermentazioni ha come prodotti finali soprattutto acido propionico e butirrico. Al contrario della precedente, la produzione di propionato comporta un “consumo” di idrogeno, che porta a tesaurizzare energia nella sua molecola. Infatti, se perdiamo metano, o idrogeno, disperdiamo energia nell’ambiente. Pensiamo alle auto a metano e (future) a idrogeno. È quindi naturale che, quando le fermentazioni “corrono”, si abbia un accumulo di idrogeno perché la sua utilizzazione da parte dei metanigeni non riesce a tenere il passo della sua produzione. In queste circostanze vengono favorite quelle vie fermentative che invece consumano, o producono meno, idrogeno. Soprattutto quella propionica, appunto».
Cosa succede quando il ritmo delle fermentazioni è troppo elevato? «Il rumine è un fermentatore che, un po’ come un motore, può girare a ritmi sostenuti, essere mantenuto “su di giri”. Il rischio è quello di andare “fuori giri”, quando si va oltre le sue possibilità di autoregolazione. E allora ecco le situazioni di acidosi, che possono essere acute e tali da mandare completamente fuori controllo le fermentazioni ruminali che degenerano verso la produzione di acido lattico fino a portare l’animale alla morte. Ma possono anche essere più modeste (acidosi subacuta, cronica) con un andamento altalenante. Di queste ultime situazioni è più difficile accorgersi e sono quelle che maggiormente incidono sull’efficienza dell’allevamento perché le conseguenze negative, dirette e indirette, sono molteplici: cali e fluttuazioni nell’ingestione, ridotta digeribilità della dieta, ridotta produzione di latte e minor percentuale di grasso, danni gastrointestinali, ascessi epatici, laminiti. Il problema - ha spiegato Bani - può essere un eccessivo apporto di carboidrati rapidamente fermentescibili, in assoluto e in rapporto con la quota di fibra, soprattutto quella fisicamente efficace».
Che fare
In che modo il metodo “Precision Feeding” può controllare, ed eventualmente migliorare, le fermentazioni? «Oggi disponiamo di molti possibili modulatori dei processi digestivi ruminali, e in quasi tutti i casi si tratta di prodotti “naturali”: prodotti di fermentazioni microbiche, fitoprodotti, lieviti, ecc…Tra i prodotti delle fermentazioni microbiche troviamo anche gli ionofori, composti ad azione antibiotica capaci di inibire selettivamente i batteri gram-positivi del rumine indirizzando le fermentazioni a favore della produzione di propionato e a discapito di acetato e butirrato. Di uno di questi, la monensina (monensin), è attualmente ammesso l’utilizzo, ma solo in qualità di medicinale veterinario. Il suo impiego richiede quindi l’emissione di una ricetta medico veterinaria ed è destinato alla prevenzione della chetosi in animali a rischio, nel periodo del periparto. Il monensin svolge questa azione proprio grazie all’effetto di orientamento delle fermentazioni che svolge nel rumine, ed è interessante notare come la modalità di somministrazione mediante boli ruminali a lento rilascio offra migliori risposte rispetto alla sua inclusione nella razione». Quanto detto da Bani quindi fa supporre che la cinetica di liberazione del principio attivo nel liquido ruminale, e di uscita dal rumine col flusso di digesta, condizioni in maniera particolare l’andamento delle fermentazioni microbiche. «Un principio questo che potrebbe essere valido anche per molti altri additivi» ha aggiunto il docente piacentino.
La modalità di somministrazione ha quindi un ruolo importante? «In questo contesto sperimentale, a mio avviso non sempre si presta la dovuta attenzione alle modalità di somministrazione. Come ho già avuto modo di sottolineare, una cosa è fornire un modulatore miscelato con la razione, un’altra cosa è offrirlo come forma “slow release”. Non è sempre detto che la seconda sia migliore; questo dipenderà dal prodotto in questione e da cosa ci si prefigge. Noi stessi abbiamo verificato in recenti ricerche come somministrare un additivo sotto forma di beverone o incluso in una farina somministrata con la razione produca cinetiche di outflow ruminale nettamente differenti. Il mantenimento di livelli per quanto possibili costanti delle molecole attive nei fluidi biologici è d’altra parte un obiettivo largamente perseguito anche in medicina umana e le sempre più frequenti forme “retard” dei medicinali ne sono una dimostrazione».
Quali altri additivi esistono? «Tra tutti i fitoderivati, gli oli essenziali stanno suscitando da alcuni anni un grande interesse, soprattutto per la loro potenziale azione antimetanigena. Chiarito che non sono oli veri e propri, in questo gruppo molto eterogeneo di sostanze troviamo soprattutto terpenoidi e fenilpropanoidi. Essi hanno un’azione simile a quella degli ionofori, sono infatti attivi soprattutto contro i batteri Gram-positivi, ma alcuni sono poco specifici e inibiscono in modo non selettivo buona parte della micropopolazione ruminale, provocando un calo di digeribilità dell’intera razione. L’estratto di aglio sembra peraltro essere tra i più interessanti inibitori della produzione di metano, il che potrebbe, ma il condizionale è d’obbligo, migliorare l’efficienza energetica della razione. Qualche anno fa un importante progetto europeo ha preso in esame cinquecento essenze vegetali che, sulla base delle informazioni disponibili, avrebbero potuto avere un’azione antimetanigena nel rumine. Di queste solamente due, quindi 4 su mille, si sono rivelate capaci di ridurre di almeno il 20% la produzione di metano senza compromettere la digeribilità degli alimenti. Una delle due è peraltro una pianta erbacea che cresce nella regione del Himalaya e coltivarla in maniera intensiva potrebbe non essere facile!».
Sarà più facile in futuro selezionare le essenze utili? «Nuove tecnologie oggi emergenti, quali la selezione in silico e la chemogenetica potranno probabilmente fornire un validissimo aiuto, sempre che si destinino a questo scopo le risorse necessarie. Per qualsiasi additivo, comunque, è necessario (e richiesto) che ne venga documentata l’efficacia a livello digestivo e ne vengano valutati gli effetti a livello metabolico e delle produzioni animali (quanti - qualitative). È secondo questo tipo di approccio che nel nostro Istituto operiamo da tempo nel settore dei fitoprodotti e degli additivi in genere».
Si può migliorare anche l’utilizzazione ruminale delle proteine con la tecnica “Precision Feeding”? «Sì, non sono solo le fermentazioni dei glucidi a poter essere migliorate e, dato che l’utilizzazione ruminale delle proteine alimentari è piuttosto poco efficiente, lo spazio di miglioramento è ampio. Con questo scopo, da tempo vengono proposti i tannini, costituiti da un’enorme varietà di estratti ottenuti con tecniche diverse e da una molteplicità di piante. Ad essi si attribuisce principalmente la capacità di complessare le proteine alimentari rendendole meno facilmente degradabili a livello ruminale senza però penalizzarne la successiva digeribilità intestinale. In realtà le modalità di azione sono più di una come abbiamo verificato anche noi in sperimentazioni condotte anni fa. Alcuni tannini, infatti, possono agire direttamente sulla popolazione microbica oltre che direttamente sulle proteine. Questi prodotti possono deprimere in una certa misura, oltre certi livelli di impiego, la digeribilità della razione, ma anche per essi potrebbe essere interessante verificare modalità di rilascio nel rumine più “slow” e noi stiamo lavorando, in collaborazione anche con Pro Tech, in questa direzione».
Che tipo di contributo sta dando attualmente il vostro istituto? «Come già accennato, il nostro Istituto di Zootecnica di Piacenza opera in questo settore da molti anni e ha messo a punto dei protocolli operativi che si sviluppano su tre livelli. Il primo step è rappresentato da verifiche in vitro, molto utili anche per azioni di screening tra diverse possibili soluzioni (ad esempio diversi prodotti o procedimenti di protezione). Dopo questa selezione si passa alle valutazioni effettuate direttamente su pochi animali finemente monitorati, con controlli che riguardano sia il comparto digestivo quanto il quadro metabolico dell’animale. L’ultimo livello, che completa la valutazione, può essere svolto presso la stalla sperimentale del Cerzoo, di proprietà dell’Università Cattolica, su un maggior numero di animali e in condizioni analoghe a quelle delle normali aziende zootecniche. Anche in questo caso gli animali vengono seguiti valutando molti aspetti, con l’aggiunta della produzione di latte e delle sua qualità nutrizionali ma anche la sua attitudine casearia, soprattutto per la produzione di Grana Padano e Parmigiano Reggiano. A Piacenza produciamo dell’ottimo Grana Padano».
Figura 1 - La tipologia di acidi grassi volatili prodotti nel rumine e il pH, ha ricordato Bani, variano in rapporto al tipo di alimenti assunti dall’animale. AGV = acidi grassi volatili; FG = fibra grezza; s.s. = sostanza secca; C2 = acetico; C3 = propionico. (Bani, 2015)
(A proposito della Figura 1)
Qualche breve nota a proposito dei concetti esposti dalla figura 1. La “regola generale” prevede che l’assunzione prevalente di alimenti grossolani, ricchi di fibra, comporti una produzione maggiore di acido acetico ad opera dei batteri cellulosolitici (che fermentano bene ad un pH superiore a 6,1); con l’innalzamento degli alimenti concentrati e degli zuccheri semplici nella dieta invece, vengono favorite le fermentazioni propioniche ad opera dei batteri amilolitici (che hanno un pH ottimale di azione compreso fra 6 e 5) e le fermentazioni butirriche ad opera dei batteri butirrici (particolarmente attivi a un pH compreso fra il 6,3 e il 5,5).
L’acido lattico invece è sempre presente in concentrazioni minime, ma aumenta quando predominano amidi e/o zuccheri solubili, specialmente se somministrati bruscamente e/o in quantità massicce; per cui quando è in eccesso favorisce l’insorgere di acidosi (pH < 5,5).
Anche la perdita di energia (coincidente con la perdita di CH4) varia in rapporto alla tipologia di alimento: è maggiore per le diete ricche di fibra grezza/cellulosa e minore per quelle ricche di concentrati. Un rapporto acetico/propionico (C2/C3) che va da 3 a 2 risulta essere una condizione ottimale per la vacca da latte, in quanto, l’acido propionico consente una sufficiente produzione di glucosio e l’acido acetico determina una buona sintesi dei lipidi del latte; un rapporto C2/C3 che va da 2 a 1 invece risulta favorevole per i bovini all’ingrasso poiché la massima produzione di propionico determina la massima produzione di glucosio e la deposizione di tessuto adiposo. M.M.