La zootecnia bovina da carne in Italia ha due volti: il primo, quello dell’eccellenza e della professionalità degli allevatori, il secondo, “anomalia storica”, la carenza di materia prima “nostrana”. Sembra un paradosso ma, in Italia, il metodo produttivo della “fettina”, che non ha eguali nel mondo, utilizza per oltre l’82% i giovani vitelli nati in Francia.
Ma perché i francesi sono più avanti di noi nell’allevamento della vacca nutrice e nella fornitura dei ristalli? Semplice, la politica agricola francese ha agito su due leve importanti:
- i premi Pac accoppiati per l’allevamento della vacca nutrice;
- il miglioramento genetico delle razze da carne.
Ma oltre la politica, anche la filiera della carne francese si è data una mossa e nel “lontano” 1980 ha costituito l’Interprofessione, una cosa che ancor oggi in Italia sembra essere un tabù e più avanti vedremo perché.
In stalle protette
Gli allevatori italiani, nel frattempo, hanno fatto di necessità virtù e, rimboccandosi le maniche, hanno progettato il sistema di allevamento protetto. Su questo argomento è necessario spendere qualche riga in più per sdoganare questo termine che non piace ad animalisti, ambientalisti, vegetariani, vegani. Parecchi anni fa un funzionario del Parlamento europeo in visita in Italia, riferendosi alle nostre stalle, sentenziò che «questo sistema di allevamento deve sparire». Probabilmente aveva in mente le immagini bucoliche della televisione o le sue scampagnate in Argentina con animali felici di correre su prati sterminati.
Ci abbiamo messo del tempo ma, noi italiani, siamo riusciti a spiegare e far accettare dal G8 dell’Agricoltura del 2009 che il nostro sistema di allevamento va molto bene, perché i bovini, nelle nostre stalle protette, hanno garantito il benessere animale, bevono acqua potabile, hanno un’alimentazione a base di cereali controllata e costante, sono salvaguardati dai parassiti, non sono esposti alle intemperie, sono controllati dal punto di vista sanitario, sono identificabili (tracciabilità), non temono la presenza dell’uomo ed hanno un microclima costante. Provino ambientalisti, vegetariani, vegani, a sostenere la stessa cosa per lo stato brado!
Sfidiamo chiunque a dimostrare che i bovini allo stato brado hanno garantito il benessere animale e che la bistecca buona arriva da bovini allevati all’erba e basta. Gli allevatori di bovini da carne sono stanchi di essere definiti “ingrassatori” e i loro allevamenti “intensivi”.
L’etichettatura
C’è solo un termine corretto: allevatori di bovini da carne. Ovvio che ci sono delle distinzioni da fare e il confine è dato dai disciplinari di etichettatura facoltativa (che qualcuno vorrebbe far sparire, e di questo ne parliamo qualche riga più avanti), che prevedono e certificano che un bovino, per essere definito allevato in Italia, deve essere stato alimentato in una stalla protetta italiana per almeno 5 mesi e, per aumentarne la qualità (vedi articolo 68) tale limite sale a 7 mesi.
A tal proposito, appare assurda la proposta avanzata dal “Gruppo di Alto Livello” dell’Unione europea che, approfittando dell’ipotesi di introduzione del microchip europeo per l’identificazione dei bovini, in nome di una non ben definita semplificazione amministrativa e un risparmio (di ben 362mila euro di costi amministrativi per gli allevatori europei, tutti!) ha inserito un articoletto che elimina l’etichettatura facoltativa introdotta 10 anni fa, in piena Bse con il Regolamento 1760/2000, ipotizzando, con atti delegati successivi (quali e quando?), di appiattire le informazioni in etichetta, abolendo quanto di buono è stato fatto sino ad oggi.
E gestito autonomamente dagli agricoltori, si badi bene, e da filiere che valorizzano l’allevato in Italia (quello vero) e non usano le sbavature del 1760/2000 (da migliorare) dove un bovino che ha soggiornato per 31 giorni nel nostro Paese può essere etichettato alla stessa stregua di quello che ne ha fatti 7 di mesi nei nostri allevamenti protetti (praticamente si raddoppia il peso di arrivo).
Che ci sia qualche interesse delle lobby industriali che già anni addietro volevano etichettare tutto con il nato, allevato, macellato e sezionato in Ue? Alla faccia dell’Escherichia coli scoperta qualche mese fa in Germania e Francia, non senza difficoltà perché la carne di hamburger, con ingredienti aggiunti (basta anche una foglia di rosmarino) non prevede l’obbligo in etichetta dell’origine del prodotto!
Come l’interbev francese
Ritornando sull’Interprofessione, il gap che ci divide dai francesi (loro l’hanno fatta nell’80) sta tutto nel complesso meccanismo di rappresentanza, anzi di coloro che in nome e per conto della rappresentanza agiscono e, a seconda delle situazioni, pongono veti o, semplicemente, fanno dell’ostruzionismo per frenare ogni buona iniziativa.
Fossimo in Parlamento dove maggioranza ed opposizione se le danno politicamente parlando di santa ragione, ci può stare, ma dividersi sul “colore della carne” o la “razza di un bovino”, per la filiera, anzi, per la parte che rappresenta l’allevatore e le sue forme organizzate, è un assurdo. A meno che, le proposte in campo (progetti) siano molteplici e si possa scegliere il migliore.
In Italia c’è stato un tentativo di costituire l’interprofessione fatto nel gennaio del 2002 da Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Assocarni, Anca-Legacoop ed Aia, che però non è andato oltre la seconda riunione. A fine 2009 ci ha provato il consorzio L’Italia Zootecnica mettendo attorno al tavolo, con il notaio, Fedagri, Legacoop e Assocarni.
Di riunioni ne sono state fatte, forse troppe, però il progetto dell’interprofessione sembra possa concretizzarsi con futuri nuovi ingressi da parte dei vari attori della filiera. Non senza difficoltà, visto che alcuni degli interpellati hanno citato l’esperienza negativa dell’Interprofessione dell’ortofrutta declinando, al momento l’adesione.
Alle organizzazioni professionali di categoria è stato chiesto di svolgere esternamente un’attività di controllo su ciò che farà l’Interprofessione lasciando alle varie rappresentanza economiche il compito di operare le scelte. Che dovranno essere limitate ad un programma alla volta per evitare di mettere troppa carne al fuoco e cadere nella trappola delle riunioni inconcludenti. E sembra che le organizzazioni di categoria siano d’accordo, come già hanno fatto quelle francesi, nel 1980, decidendo di non entrare in Interbev.
La filiera tutta italiana
Tornando sul sistema di allevamento italiano, possiamo affermare che nel nostro Paese ci sono due filiere: la filiera tutta italiana e la filiera convenzionale.
La filiera tutta italiana (tab.1) ha al suo interno due filoni: Il nato in Italia e l’Igp. Il nato in Italia (bovini iscritti a libri genealogici, diversi dall’Igp, e bovini non iscritti a libri genealogici, classificati quali incroci) che rappresentano il 4% del macellato e provengono da vacche nutrici siciliane, vacche sarde e vacche da latte frisone.
Della filiera Igp, il 3% è rappresentato dal cosiddetto Vitellone bianco dell’Appennino centrale e dal Piemontese (non ancora riconosciuto Igp). In totale, i capi nati in Italia macellati non superano il numero di 150mila all’anno.
La filiera convenzionale
Riguardo alla filiera convenzionale, ovvero l’allevato in Italia (tab.2), che fornisce il 90% della carne prodotta in Italia, va detto che si è consolidato con la Francia un rapporto molto stretto poiché l’Italia è il bacino più importante d’esportazione dei broutarde francesi. La filiera dell’allevato in Italianon riesce comunque a soddisfare il fabbisogno di carne del nostro Paese, importatore netto con oltre il 50% di carne proveniente dall’estero (Europa e America Latina).
Da rilevare, anche, che i mutati scenari internazionali, in materia di allevamento e consumo di carne bovina, vedono paesi extra-Ue, tipo la Turchia, acquistare navi di bovini pronti da macellare (i dazi in Turchia per l’importazione di bovini vivi sono notevolmente inferiori a quelli della carne) e ciò potrebbe provocare grossi problemi di rifornimento alle nostre stalle soprattutto per la lievitazione dei prezzi di mercato. Questa è un’ulteriore sofferenza per la nostra zootecnia bovina da carne che se potesse disporre in Italia dei ristalli non avrebbe certo bisogno di rivolgersi all’estero.
Una “ricetta” per produrre ristalli in Italia è stata data dalla proposta di Piano carni nazionale, presentata dal consorzio L’Italia Zootecnica (per una filiera tutta italiana) ma stenta a decollare perché al ministero dell’agricoltura non prestano attenzione (saranno impegnati in altri fronti) e perché l’agricoltura, ancora troppo politicizzata, è costellata da persone che hanno più interesse a moltiplicare le riunioni che a risolvere i problemi.
INTERVENTI SUI PSR
Ovviamente le nuove mandrie di vacche nutrici non s’inventano dalla sera alla mattina però, la politica, in generale (intesa anche come politica-sindacale) dovrebbe adoperarsi per ripristinare in Italia il comparto della “vacca nutrice”, con appositi interventi sui Psr per consentire alle Regioni vocate di finanziare l’acquisto di mandrie, fermo restando la necessità di agire prima a livello europeo per modificare il Regolamento n. 1857/2006 – Art. 4 paragrafo 7 lettera a) punto 7 che non consente aiuti per l’acquisto di animali ed il Regolamento n. 1974/2006 - Art. 55 comma 2 (norme per i Psr) punto 2 che, nel caso di investimenti agricoli, non ammette anch’esso l’acquisto di animali.
Si potrebbe, in alternativa, parlare di Embryo Transfert e seme sessato? Ma a quali costi e con quali risultati in termine di attecchimento e nascite? E quanti allevatori di vacche da latte sarebbero disponibili ad “affittare gli uteri” dei propri animali per far nascere vitelli da destinare all’ingrasso (anche se il ritorno economico su un vitello da “carne” è pressoché certo)?
Sono molti gli interrogativi che ci trovano impreparati e impotenti a livello di sistema Italia, perché la zootecnia bovina da carne è sempre stata poco considerata da chi governa e anche da chi ha responsabilità sindacali. Da registrare però la determinazione degli allevatori a mantenere l’eccellenza degli allevamenti di bovini da carne italiani ed a chiedere al ministero dell’agricoltura di varare il Piano carni nazionale senza indugiare ulteriormente.
Mantenere in vita le aziende d’allevamento, oltre a un logico orgoglio nazionale, a una logica salvaguardai dell’economia zootecnica, che muove un indotto molto importante, serve anche per la sicurezza alimentare, sia in termini di approvvigionamento sia in termini di salute dei consumatori.
L’autore è presidente di Unicarve e del Consorzio L’Italia Zootecnica