Reggio Emilia esprime da sempre un'agricoltura fortemente orientata alla zootecnia. Il 60% della produzione agricola provinciale è rappresentato dalle produzioni animali: latte per Parmigiano Reggiano innanzitutto, con un valore di oltre 320 milioni di euro; e a seguire carne suina (59 milioni di euro) e carne bovina (38 milioni), oltre ad alcune realtà, anche significative, nel settore avicunicolo e ovicaprino (10 milioni di euro complessivamente). La provincia di Reggio Emilia produce più del 30% del formaggio del comprensorio Parmigiano Reggiano ed è seconda solo a Parma, con uno scarto di circa 160mila forme. A fronte di una buona situazione delle strutture produttive, sia allevamenti che casefici, i problemi non mancano, primo fra tutti il preoccupante livello dei costi di produzione. Per il secondo anno consecutivo abbiamo un costo al di sopra dei 60 euro a quintale di latte negli allevamenti di pianura. Si arriva a un pareggio economico striminzito aggiungendo i ricavi per vacche e vitelli di scarto. Quasi impossibile fare tornare i conti in montagna, dove le imprese agricole si devono accontentare di un margine lordo che di fatto sotto-paga la manodopera familiare. Si può ricordare poi il lavoro fatto da Confagricoltura a sostegno delle politiche messe in atto dal consorzio Parmigiano Reggiano. Gran parte del lavoro di quest'ultimo anno è stato assorbito dalla definizione dei nuovi piani produttivi. La definizione del “quanto produrre” rimane ancora oggi l'elemento chiave da governare per evitare eccessive volatilità nelle quotazioni e difendere il redditi degli allevatori. Ma non basta. Occorre lavorare con strumenti sempre più efficaci per fare conoscere e apprezzare dal consumatore la qualità intrinseca che il nostro formaggio ha rispetto ai prodotti concorrenti, qualità che si deve tradurre nel giusto differenziale di prezzo. Dobbiamo lavorare perché il mercato percepisca in modo sempre più chiaro l'unicità del Parmigiano Reggiano; il tutto in uno scenario che vede forti cambiamenti nella distribuzione e nelle abitudini alimentari. Altre scelte ci aspettano sul fronte politico. Confagricoltu- ra da tempo sta seguendo la riforma della politica agricola comune con particolare riferimento alle ricadute sulla zootecnia da latte. Fine delle quote latte fra meno di un anno, ma non solo: ad esempio le opzioni in ballo sui premi Pac accoppiati, tema quanto mai d'attualità. Dispiace vedere ritardi e opportunismi nelle nostre scelte nazionali, soprattutto se confrontati con la chiarezza di visione dei partner comunitari. Il caso della Francia è emblematico: qui i premi accoppiati sulla zootecnia sono al 90% del plafond. Potrà essere giudicata una scelta estremistica ma quantomeno riflette una visione chiara: la zootecnia e il lattiero caseario sono elementi portanti dell'agricoltura nazionale e come tali si è scelto di sostenerli. Vorrei la stessa chiarezza di visione anche in Italia e un po' più di coraggio per uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per accontentare tutti. Ad esempio, ho l'impressione che il tema “qualità latte”, ben presente nel vecchio articolo 68, sia uscito di scena nelle ipotesi del Ministero sui nuovi pagamenti ex art. 52 Reg. n. 1307/2013. Perché non condizionare l'erogazione dei nuovi premi accoppiati latte al raggiungimento dei parametri qualità che già conosciamo (carica batterica, cellule, proteine)? Penso che, in un momento in cui le risorse pubbliche sono tendenzialmente in diminuzione, si impongano scelte restrittive ma “di indirizzo” per il futuro; questo dovrebbe essere il principale compito della politica.
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