"In Europa, (e direi nel mondo) ma sicuramente in Europa e in America, la destinazione più remunerativa del latte ottenuto da bovine alimentate con insilati è la destinazione a Grana Padano”. È quanto ricorda all’Informatore Zootecnico Stefano Berni (nella foto), direttore generale del consorzio di tutela del formaggio Grana Padano.
Continua Berni: “Ormai negli ultimi anni, ed è conclamato e clamoroso il dato del 2024, non esiste in nessun’altra parte del mondo occidentale una destinazione del latte - latte da silomais - nella quale questo arrivi a essere remunerato ai livelli raggiunti nella filiera del Grana Padano”.
È intorno a questo mega concetto generale che ruoterà questa nostra lunga, approfondita, ramificata intervista a Stefano Berni. Che come vedremo discuterà via via non solo della remuneratività del latte, ma anche delle dinamiche della produzione, del rischio sovrapproduzione, delle tendenze del mercato al consumo, delle quote latte. Tutto sempre in riferimento alla filiera del Grana Padano.
Tutto in riferimento al Grana Padano, ovviamente, però ricordiamo che si tratta di una filiera che rappresenta una quota enorme della produzione nazionale di latte: ben il 22,5%, con 3 milioni di tonnellate di latte da trasformare e con 5,6 milioni di forme. Per ora.
Siamo di fronte dunque a una realtà talmente importante e rappresentativa che chiunque operi in altre filiere del settore lattiero caseario non può esimersi dall’osservarne con attenzione le dinamiche.
Direttore Berni, sembra manifestarsi una certa inclinazione della vostra base produttiva verso un eccessivo aumento della produzione di latte e di formaggio.
Esattamente: nei primi quattro mesi del 2025 è avvenuto questo. E quindi per una serie di circostanze congiunte la crescita produttiva si avvicina al +5% nel quadrimestre; ed è superiore al tetto che avevamo auspicato, che prevedeva di non superare il +3%, di avvicinarsi al +3% senza superarlo. In sintesi, siamo di fronte a una forte spinta produttiva.
Quali sono le motivazioni di questo trend?
Le motivazioni sembrano almeno quattro. La prima motivazione è il marcato differenziale della valorizzazione del latte (parliamo del latte da silomais, da insilati) che c’è tra la destinazione a grana padano e la destinazione ad altre tipologie casearie o a latte fresco. Un marcato differenziale che spinge il sistema verso una produzione rilevante.
E la seconda motivazione?
Giocano sicuramente un forte ruolo in direzione della sovrapproduzione anche i dividendi che si sono affacciati in queste settimane. E che non hanno ancora finito di uscire perché finiranno in giugno. I dividendi, intendo, delle cooperative casearie, specialmente quelle in cui il latte è quasi esclusivamente destinato a grana padano. Sono dividendi talmente lusinghieri che corrono il rischio di confondere, nella prospettiva. Solo stamattina è passato a salutarmi il presidente di una cooperativa mantovana che ha fatto l’assemblea di bilancio la settimana scorsa: ha fatto un dividendo di 82 centesimi per kg di latte, ivati.
E quindi gli allevatori concludono: stando così le cose, continuiamo a spingere sulla produzione.
Gli allevatori sì, ma anche i caseifici.
La terza motivazione?
Questo inoltre non riguarda solo le cooperative, perché chi (come i cosiddetti granisti) sta comprando il latte e lo sta pagando attorno ai 61-62 centesimi al litro evidentemente ha un buon margine di trasformazione. Perché se agli 80 centesimi al kg, ivati, che diventano 82,4 al litro, ivati, togli l’Iva, otteniamo 74 centesimi al litro. Se io lo pago 64 con la raccolta, e sono un privato, mi rimangono almeno 10 centesimi al litro di utile di trasformazione. Cioè c’è un utile di almeno il 15%. Numeri che stanno stimolando crescite produttive rilevanti.
Infine si poteva mettere a fuoco una quarta motivazione alla base di questo trend che favorisce la crescita produttiva.
Sì, e quest’ultima è relativa al latte spot. Il prezzo del latte spot, soprattutto in queste ultime settimane, non è incoraggiante, rispetto ai valori che abbiamo citato prima. E quindi molti aspettano a rientrare nelle produzioni, ritenendo, giustificatamente, che il prezzo del latte spot quando saremo a luglio, o forse un po’ prima, potrebbe crescere rispetto all’attuale livello arrivando a superare i 60 centesimi al litro, visto che oggi fatichiamo a superare i 53-54. E quindi è comprensibile che in una pianificazione un caseificio pensi di vendere il latte quando prende di più. Cioè io produco tanto adesso perché ho la mia quota, perché adesso il mio latte se lo vendo prendo poco; tornerò indietro a luglio-agosto perché presumo che vendendo il latte prenderò di più. E quindi l’esuberanza che ho adesso, che ho fatto in questo quadrimestre, la contengo nei mesi estivi. E quindi c’è questa previsione che il latte spot a luglio sarà sui 60 centesimi: è un’ipotesi, però è un’ipotesi assolutamente credibile in base alle informazioni che arrivano dall’Europa, quindi dalla Germania, dall’Olanda, dalla Francia.
In conclusione, stando così le cose, per il vostro consorzio sarebbe auspicabile un contenimento delle produzioni.
Rispetto al primo quadrimestre certamente sì. Nel primo quadrimestre io temo (in 25 anni, 26 ormai, difficilmente mi sono sbagliato in queste mie previsioni su questo tipo di rischio) che se mantenessimo questo trend produttivo anche nella restante parte dell’anno le quotazioni attuali verrebbero molto penalizzate. Molto penalizzate perché un trend del genere è sopra la nostra capacità di crescita e di commercializzazione. Sono però sicuro che non sarà così. Sono sicuro che questo trend così esuberante dei primi quattro mesi verrà certamente contenuto nei mesi estivi, diciamo sostanzialmente nel trimestre luglio agosto settembre. E quindi sono abbastanza ottimista che il mercato non verrà stressato e penalizzato nell’anno in un eccesso produttivo.
E poi d’estate c’è sempre un calo fisiologico della produzione di latte dovuto al caldo.
Però non conviene aspettare il caldo estivo, bisognerebbe cercare di agire già da subito, già a maggio. La mia speranza è questa; però capisco il comportamento dei produttori. Capisco anche se non condivido, perché il mio ruolo mi impone di essere imparziale sulla movimentazione del formaggio e del latte. Sarebbe meglio contenere la produzione anche perché poi quando esageri, come abbiamo fatto nella produzione di aprile, quando dovremo commercializzare tra 8 mesi la produzione di aprile ci troveremo una massa rilevante di formaggio; e quindi secondo me questo formaggio andrebbe venduto durante tutto l’anno. Però capisco quell’imprenditore (il caseificio) che dice: invece che vendere adesso a 53 lo venderò a 62 fra due mesi, cosa che mi serve per rientrare nelle produzioni che mi ero prefissato di fare. Però io preferirei non fosse così. Questo imprenditore di cui parlo è il conduttore del caseificio privato, o comunque di quel caseificio che il latte lo raccoglie tutto e che decide quanto del latte raccolto trasformarlo in grana padano e quanto trasformarlo in altre destinazioni, o venderlo per altre destinazioni.
Bene, E quali strumenti ha il consorzio per convincere i produttori a contenere la produzione? Non so, la moral suasion…
Ne posso mettere a fuoco almeno tre. Il primo strumento è appunto quello della persuasione. Ossia quello di convincere i produttori, con i numeri e con le previsioni, che gli eccessi non sono mai positivi. Noi abbiamo un esempio, che io noiosamente ripeto ad ogni occasione in cui si parla di questi temi, che è ciò che avvenne nel 2005. Quando dopo una prima ipotesi di piano produttivo 2003-2004, quindi parliamo di 21-22 anni fa, l’Antitrust ci impose di bloccare quella programmazione, che allora non era coperta da nessuna norma nazionale e comunitaria, quindi ci consentì di chiudere l’annata 2004 ma ci disse non ripetere nel 2005. Allora la crescita produttiva superò abbondantemente il 7% e le quotazioni di fine anno 2025 furono decisamente inferiori alla metà delle quotazioni di oggi del formaggio all’ingrosso.
Perché se oggi il formaggio di nove mesi, scelto, vale 11 euro al chilo…
Se oggi vale 11 euro, nell’ottobre-novembre del 2005, quindi vent’anni fa, valeva meno di 5 euro al kg, nove mesi, formaggio appena marchiato. Quindi meno della metà. Dunque è un’esperienza che ci dice molto. Ci si arriva per ragionamento, ma se uno volesse controllare va a vedere quanto si è venduto in formaggio nel 2005, a cominciare da maggio, poi giugno luglio agosto settembre, finchè a ottobre e novembre il formaggio è andato sotto i 5 euro. Quindi un primo strumento per convincere la base produttiva a contenere la produzione è quello di mostrare i numeri, convincerla, far ricordare questa esperienza del 2005 e quindi usare lo strumento della persuasione.
E il secondo di questi strumenti?
Esistono in effetti altri strumenti un po’ più vincolanti. Uno strumento che è stato usato nel recente passato può essere quello della penalizzazione nelle assegnazioni di fine anno ai caseifici che hanno mostrato troppo esubero.
Un terzo strumento utile per prevenire la sovrapproduzione?
Un altro strumento può consistere nella volontà di alzare il livello qualitativo retinando un po’ più di formaggio di quanto non si stia già retinando ora. E quindi si potrebbe decidere di agire solo per un periodo, volontariamente, con la condivisione di tutti i soci o della gran parte dei soci, di alzare il livello qualitativo retinando di più.
I principali strumenti quindi sono questi tre.
In sintesi sì. E quindi il primo strumento, quello più forte, è convincere coi numeri, e con l’esperienza, perché nel passato le previsioni del consorzio erano sempre state azzeccate. Persuadere mostrando sia l’andamento dei prezzi sia l’andamento delle vendite. Gli altri due strumenti: uno è una penalizzazione per chi esagera troppo, l’altro è un innalzamento temporaneo del retinato. Gli strumenti sono questi tre; a me personalmente piacerebbe che fosse sufficiente il primo, la persuasione mostrando i numeri. Poi in ordine di importanza abbastanza volentieri cercherei anche il terzo, quello dell’incremento delle retinature. Mentre sarei dispiaciuto se il consiglio fosse costretto a ripresentare la penalizzazione che si fece nel 2023 sulle assegnazioni ai caseifici.
In che cosa consiste questa penalizzazione?
Quando un caseificio va fuori dalla sua quota paga la differenziata, che ovviamente cresce progressivamente col crescere dello splafonamento. È chiaro che la prima fascia dell’1, 2, 3% è relativa a somme aggiuntive crescenti ma digeribili. Quando però superi il 7% l’importo diventa di 80 euro a forma, quindi ha un costo di 2 euro al kg formaggio. Se un caseificio, come sta succedendo nei primi quattro mesi del 2025, va oltre questo +7% ha un costo rilevante. Costo che però affronta senza grosse preoccupazioni per via del differenziale rispetto all’altro latte di cui si parlava prima.
Che cosa avviene in quest’ultimo caso?
Io caseificio pago. E vado a pescare nell’obbligatoria assegnazione, che quest’anno sarà di 25.000 forme. Vado a pescare in proporzione a quanto io pago. Facciamo un esempio: se io sono protagonista del 10% del totale dello splafonamento (parlo in termini di euro) e quindi pago il 10% per totale della differenziata, vado a pescare il 10% delle 25.000 forme quindi ne porto a casa 2.500. E poi faccio il conto e dico: è vero che queste forme se le compro al mercato libero mi costano meno di quello che mi costerebbero portandoli a casa dalla differenziata, però se ci sto dentro col differenziale di prezzo per la valorizzazione del latte, e inoltre ho questa assegnazione, è un’operazione che mi conviene e decido di farla. Se poi io ti riduco l’assegnazione e invece che 2.500 forme te ne dò 1.500…
Cosa successe nel 2023?
Nel 2023 è successo questo: chi superava il 10% della propria quota aveva una riduzione del 40% dell’assegnazione. Cioè io avevo, e magari meritavo, 2.000 forme, me ne davano 1.200 perché 800 le perdevo a vantaggio di splafonatori più modesti di me; quindi il costo per forma riassegnata a quel punto quasi si raddoppiava. Questo è quello che è avvenuto nel 2023. E questa è la penalizzazione, che è lo strumento del piano che potrebbe consentire questa situazione: io non ti faccio pagare nulla di più, ma ti assegno proporzionalmente di meno se tu esageri nella produzione. Questo è stato il ragionamento che ha mosso il cda e l’assemblea, per cui è poi stato votato dall’assemblea, nel 2023.
Meglio la persuasione.
Sì, io sarei molto dispiaciuto se il consiglio d’amministrazione forse costretto ad arrivare fino a questo punto. Dovrebbe essere sufficiente l’impegno di convincere i produttori mostrando i numeri; e anche la retinatura. Perché comunque alla fine alzo la qualità se si decide di retinare un po’ di più. Sa, il 2% di retinatura sono 120mila forme in meno. E se io oggi sto facendo crescere la produzione di quasi il 5% significa che sto facendo 270mila forme in più. Ma se io retino il 2% in più, passo dal +5% a sotto il +3% quindi vado in range, in corrispondenza con le nostre previsioni.
Fra l’altro potremmo guardare anche alla domanda, oltre che all’offerta. E ai prezzi attuali si fa più fatica a vendere rispetto a quanto si riusciva a fare con i prezzi di 2-3 anni fa, che pur essendo buoni erano decisamente inferiori.
Certo. Mentre continuiamo ad andar forte all’estero, in Italia con questi prezzi i consumi stanno rallentando. I consumi di grana padano e ultimamente anche di parmigiano reggiano. Mentre si stanno avvantaggiando i prodotti similari, che costano il 30% in meno.
Nella sua circolare del 14 maggio lei punta sulla persuasione?
Certo, in questa mia lettera destinata ai consorziati e ai confezionatori ricordo che converrebbe rimodulare gli incrementi produttivi già da subito. Senza aspettare la seconda metà dell’anno ipotizzando che possa assottigliarsi il differenziale di valorizzazione del latte tra la destinazione a grana padano e le altre destinazioni. Però nella circolare aggiungo che si può tenere in considerazione anche la retinatura. Infine ipotizzo il percorso produttivo riportato nella tabella che anche voi di IZ pubblicate, qui in questa pagina. Un percorso produttivo realistico, compatibile, che prevede crescite ordinate e non picchi eccessivi, come avvenne invece nell’amarissimo 2005.
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QUANDO ALLA FINE IL FORMAGGIO SI PRESENTA AL CONSUMATORE
Il consumatore, il consumatore italiano, va al supermercato e trova l’una accanto all’altra la confezione di una fetta di grana padano e la confezione di una fetta di parmigiano reggiano. Come aspetto sono piuttosto simili, ma c’è una differenza che balza subito ai suoi occhi e risiede nel prezzo.
Dottor Berni, quali sono le conseguenze commerciali di questa situazione?
Eh, in questa situazione il confronto evidenzia che il grana padano costa un pochino meno, e meno male! Di conseguenza ha un maggior successo sul mercato, anche perché viene anche incontro al ridotto potere d’acquisto del consumatore. In ogni caso si tratta di un successo anche mondiale, dal momento che il grana padano è la dop come quantità più consumata sia in Italia che nel mondo; e dal momento che nel 2024 abbiamo esportato il 52% della produzione, con un incremento del 9,5% dell’export che ci ha consentito il sorpasso. Mentre in Italia, a causa di un prezzo all’ingrosso molto sostenuto, c’è stato un calo dei consumi nel retail. Ma al di là del dato episodico del 2024, il motivo per il quale il grana padano ottiene questo successo sul mercato è perché viene considerato dal consumatore come il migliore formaggio duro dop nel rapporto qualità/prezzo.
Il consorzio avrà condotto studi precisi sulla questione.
Certo, li abbiamo chiesti a realtà come l’Università Cattolica di Piacenza, Nomisma, Wave Makers, Kpmg, organismi che abbastanza frequentemente consultiamo per valorizzare i mercati. E questi studi ci dicono che in Italia, potenzialmente, quando al consumo il differenziale del prezzo tra grana padano e parmigiano reggiano va oltre il 30% la propensione dell’acquisto di grana padano cresce sensibilmente, si sbilancia molto verso il grana padano. Mentre quando si avvicina al 10% cresce la propensione dell’acquisto del parmigiano reggiano, si sbilancia molto verso il parmigiano reggiano.
Si tratta di ricerche relative solo al mercato italiano?
Esattamente. Inoltre queste ricerche dicono in sintesi che in Italia abbiamo tre categorie di consumatori:
a) gli esclusivisti del parmigiano reggiano: “compro sempre solo parmigiano reggiano” (per motivi culturali, di convinzione…), che è un gruppo abbastanza corposo;
b) poi c’è il gruppone cosiddetto dell’indifferenza: “compro l’uno o l’altro formaggio a seconda del prezzo e della mia propensione in quel momento”;
c) infine c’è un gruppettino molto più piccolo, quello degli esclusivisti del grana padano.
Le variazioni si verificheranno solo all’interno della seconda categoria.
Ovviamente, solo nel gruppone “dell’indifferenza”. Il quale reagisce in base al prezzo sulle entità quantitative degli acquisti. Teoricamente, superato il 30% di differenziale del prezzo il consumatore appartenente a questo gruppo compra quasi in prospettiva: se il differenziale del prezzo dovesse essere +50% compra quasi esclusivamente grana padano, se invece il differenziale dovesse andare al 10% compra quasi esclusivamente parmigiano. Abbiamo una prova indiscutibile che questa tendenza è corretta nel 2024, anche senza arrivare a questi livelli. Perché durante il 2024 il differenziale al consumo tra grana padano e parmigiano reggiano è andato decisamente sotto la media storica. Ultimamente, la propensione al consumo favorisce il grana padano, in questo momento i prezzi di vendita favoriscono rispetto a qualche mese fa il grana padano rispetto al parmigiano reggiano.
Ma sarà da calcolare anche l’effetto di un terzo incomodo, il formaggio similare.
Sì, in questa situazione di prezzi alti irrompe purtroppo questo terzo incomodo, i formaggi similari. Sono questi il vero problema, stanno crescendo, negli acquisti dei consumatori, in maniera consistente. E sappiamo che nella ristorazione da prezzo i similari vanno oltre il 50% di share, mentre il grana padano sta sotto il 40%. Il parmigiano in questo tipo di ristorazione (parliamo della ristorazione da volumi, da prezzo) occupa spazi modesti, perché costa molto. E in genere questo tipo di ristoratore non si preoccupa di far conoscere che formaggio è il grattugiato che porta in tavola.
Insomma, in questo caso a decidere quale formaggio portare in tavola è il ristoratore e non il consumatore.
Certo, perché se tu vai a spendere 15 euro per un pasto completo non ti permetti di fare lo schizzinoso e di pretendere il parmigiano reggiano o il grana padano. Ma neanche ci pensi, ti limiti a chiedere del formaggio grattugiato ed è finita lì.
Questa tendenza a favore dei formaggi similari si presenta solo nella ristorazione?
Certamente no. Il discorso è più generale. Questa tendenza degli acquisti delle famiglie a favore del similare l’abbiamo vista negli ultimi mesi del 2024 e la stiamo vedendo adesso. Quello che ci preoccupa adesso è il retail. Dove il similare, che era sotto il 20% di share, ora si sta avvicinando al 25%, a discapito del padano e del reggiano. Quindi sarà questo il tema dei prossimi mesi. Inoltre secondo me dovremmo correggere la cosiddetta scelta per confusione.
Scelta "per confusione": di cosa si tratta?
È un fenomeno che è stato definito da uno studio che a suo tempo ci aveva fatto la Cattolica di Piacenza. Dove si diceva che quasi la metà del similare veniva scelto dal consumatore appunto “per confusione”. Cioè non per determinazione convinta ma appunto dietro un calo di attenzione: il similare lo vedono mescolato, ha lo stesso aspetto, ha un sapore che si annuncia analogo, costa meno e quindi lo prendo.
Magari sulla confezione si trovano anche slogan o marchi con evidenziata la parola “Gran”…
Sì, appunto, “Gran” qui, “Gran” là… E quindi il consumatore pensa: magari questo formaggio è la seconda linea del grana padano o del parmigiano reggiano (più del primo che del secondo). Inoltre questa propensione a confondere il consumatore, a vantaggio dei similari, viene favorita anche dal fatto che nei supermercati i similari non vengano distinti in maniera troppo vistosa.
In effetti la prima preoccupazione di molti supermercati resta quella di vendere molto e subito.
In molti supermercati parmigiano reggiano e grana padano a volte vengono utilizzati come prodotti civetta, per attirare, richiamare il consumatore. Cosa che si intreccia con la pratica dello svendere sottocosto: il consumatore entra distrattamente nel supermercato sotto casa con l’intenzione di comprare il grana padano poi magari riempie il carrello con altri formaggi perché costano meno. Il similare non sarà mai un prodotto civetta perché nessuno entrerà nel supermercato attratto da una promozione di un prodotto fake. Perché il similare è un prodotto fake. Questa è la chiave di lettura del fenomeno, che si è accentuato con l’incremento dei prezzi al consumo prima del padano e recentemente negli ultimi mesi anche del parmigiano. E a beneficiarne (parlo sempre del retail, cioè acquisto delle famiglie) sono i similari.
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QUOTE LATTE AI CASEIFICI? “NESSUNO VIENE DISCRIMINATO”
Alcuni operatori del settore lattiero caseario affermano, anche pubblicamente, che c’è un problema quando le quote latte sono attribuite ai caseifici, come avviene nel grana padano, e non agli allevatori, come avviene invece nel parmigiano reggiano.
Il problema consisterebbe nel fatto che, con questa situazione, i caseifici del grana padano sarebbero più esposti al rischio che una multinazionale, o comunque un soggetto privato che intenda investire nel settore, li acquisti da un giorno all’altro. Esercitando di conseguenza un’influenza anche su scelte più di tipo collettivo, all’interno del consorzio.
Dottor Berni, lei come interpreta questa particolare opinione?
Per risponderle dobbiamo prima dire qual è la differenza sulle quote latte fra il grana padano, dove la quota ce l’ha il caseificio, e il parmigiano reggiano, devo la quota ce l’ha la stalla. Nella zona del parmigiano reggiano il 100% del latte da parmigiano reggiano, quindi senza silomais e insilati nell’alimentazione delle bovine, va a parmigiano. E quindi quando furono state assegnate le quote alle stalle non è stato discriminato nessuno perché a suo tempo, parliamo del 2006, tutte le stalle destinabili e destinate a parmigiano reggiano hanno ottenuto la loro quota formaggio al 100%. Quindi non è stato lasciato indietro nessuno. Le altre stalle di quella zona invece fanno silomais, e proprio a causa di questo tipo di alimentazione delle bovine portano il latte a destinazioni diverse dal parmigiano reggiano.
Nella zona del grana padano, invece?
Nel Grana Padano dare il 100% delle quote a tutte le stalle era impossibile, perché solo il 50% delle stalle con latte da silomais veniva a grana padano. E se noi avessimo affidato le quote alle stalle che c’erano nel 2006 avremmo escluso tutte le stalle che in quel momento non c’erano. E non avremmo consentito il turnover, ossia le entrate e le uscite di stalle che tutti gli anni si verificano. Se il consorzio del grana padano avesse affidato le quote alle stalle che nel 2006 conferivano a Grana Padano avrebbe escluso metà delle stalle, che sarebbero mai più potute venire, ci sarebbe stata una discriminazione. Invece con la quota in caseificio noi garantiamo un turnover che tutti gli anni c’è.
Turnover: centinaia di stalle che entrano ed escono dal sistema del grana padano.
Sì. Inoltre abbiamo molti caseifici, anche cooperativi, che oltre al grana padano producono altri formaggi, come il provolone, o l’asiago nel Veneto… Facciamo l’esempio di Latteria Soresina: Soresina raccoglie 100 di latte, ma di questo circa 50 va al grana padano e circa 50 no. E quindi, se le quote fossero state delle stalle, le stalle che avrebbe potuto avere Soresina in quel momento non avrebbero potuto conferire il latte a Soresina ma avrebbero conferito fuori. Quindi la quota alla stalla nel sistema a grana padano sarebbe stata illegittima perché avrebbe discriminato le stalle che in quel momento non c’erano. Né si poteva dare la quota a tutte le stalle perché avremmo dovuto assegnare una quota doppia rispetto all’esigenza.
Quindi il fatto che nel grana padano le quote le abbiano i caseifici non è un problema.
Anzi, nel caso del grana padano la non attribuzione delle quote alle stalle è anche un vantaggio. È anche un vantaggio perché non fa correre il rischio di indebolire un caseificio. Un rischio che insorge quando ci sono stalle che vendono la loro quota ed escono da un caseificio per andare a un altro caseificio che ritengono più remunerativo e più confacente, esponendo al rischio di svuotare un caseificio. Questo problema dell’acquisto di stalle e di quote dalle stalle da parte di soggetti diversi sta cominciando ad affacciarsi in maniera significativa soprattutto nel mantovano, a sud del Po; e quindi è proprio il parmigiano che sta subendo questo rischio.
E sul rischio dell’arrivo di investitori esterni che possano comprare un caseificio da un momento all’altro?
Ma io non lo considero un rischio, perché, al di là del nome, la gestione del piano produttivo è del consorzio. Quindi che a produrre nel caseificio di Ambrosi sia il Giuseppe Ambrosi o sia Lactalis non è che cambia molto nella dinamica della gestione del grana padano.
Non ci potrebbe essere la conseguenza negativa che si riduca la percentuale di presenza della cooperazione? Se arrivasse un investitore estero, questo acquisterebbe più volentieri un caseificio privato che non una cooperativa casearia.
Ormai qui nel grana padano la cooperazione supera il 65%. E negli ultimi anni di poco ma continua leggerissimamente a crescere. Dunque non vedo rischi per la cooperazione, da noi il trend è esattamente il contrario. Comunque: l’investitore preferirebbe acquistare un caseificio privato? Sì, è più probabile. Ma non vedo un rischio. La cooperazione, che è obbligatoriamente territoriale e indigena, ha una governance, ha una rilevanza tale che esclude questo rischio. Oggi siamo 65% cooperative e 35% privati. E fra i privati abbiamo delle specie di cooperative familiari; per esempio Zanetti possiamo considerarlo una cooperativa familiare, che non ha il cuore il portafoglio fuori dall’Italia. E Zanetti da solo ha l’8%, dunque se io assommo la quota della cooperazione alla quota del big industriale Zanetti arrivo al 73%.
Sempre discutendo di cooperazione: nel parmigiano un allevatore può vendere la quota a un altro allevatore.
A mio avviso non tutti i caseifici cooperativi del parmigiano sono così felici che le quote siano delle stalle; questo perché qualche caseificio cooperativo, fra quelli meno performanti, può essere preoccupato perché può temere di perdere dei soci, i quali possono andare da un’altra parte oppure vendere la quota. Ma se io Stefano Berni, socio del caseificio Pinco Pallino, vendo la mia quota a Setti e non gli trasferisco l’obbligo di essere socio di quella cooperativa lì, danneggio la cooperativa. Nel parmigiano reggiano c’è uno strumento che impedisce questo tipo di meccanismo, che dà una sorta di priorità, ma mio avviso non è vincolante a sufficienza. E invece secondo me per non penalizzare le cooperative meno performanti bisognerebbe che questo vincolo fosse superiore a una prelazione, che comunque è già qualcosa.
Prelazione…
A mio avviso la prelazione va bene ai caseifici ma non va bene all’allevatore. Io come allevatore, che ho la quota, voglio esser libero di vendere quando mi pare, al prezzo che mi pare e a chi mi pare, non voglio condizionamenti. C’è il caso di un’azienda bolognese non appartenente al settore agroalimentare che, essendo in grado di fare ingenti investimenti, quando c’è una stalla libera la compra; però poi non vuole portare il latte proprio al caseificio in cui il latte andava prima.