
È notizia recente la diffusione, da parte del ministero della Salute, di nuove norme da seguire per affrontare il problema della presenza delle aflatossine nel latte. E ora, con questo impegnativo articolo, l’Informatore Zootecnico cercherà di sviscerare la questione con il giusto grado di approfondimento.
Lo farà intervistando Paolo Daminelli, responsabile del Centro di Referenza nazionale per la qualità del latte bovino. Il Centro di Referenza è una struttura del Dipartimento Sicurezza Alimentare dell’Izsler (diretto da Giorgio Fedrizzi) inserita all’interno del Reparto Produzione Primaria (diretto da Franco Paterlini). La sigla Izsler (IZSLER) indica l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, con sede centrale a Brescia.
I testi di queste nuove norme del ministero della Salute, comunque, sono riportati anche qui in questo sito internet, nella sezione “Documenti”, al link https://informatorezootecnico.edagricole.it/documenti/aflatossine-nel-latte-i-tre-documenti-chiave-del-ministero-della-salute/ .
Dottor Daminelli, quali sono le differenze, in materia di aflatossine nel latte, fra le linee guida del 2013 e le linee guida del 2025? Balza subito agli occhi la riduzione del limite di allerta da 0,050 a 0,040 microgrammi per kg di latte, che qualche produttore nelle scorse settimane ha interpretato come un giro di vite, come una nuova fonte di incremento dei costi di produzione…
In realtà le differenze più significative sono sostanzialmente due. Una quella che ha indicato lei, l’introduzione di un limite di allerta a 0,040 microgrammi per chilogrammo. Ma noi riteniamo che la differenza maggiore tra le linee guida del 2013 e quelle del 2025 sia relativa al fatto che, con le nuove indicazioni, anche a livello di produzione primaria la gestione del pericolo aflatossina debba essere correlata con l’analisi del rischio.
Cioè?
Cioè con le norme 2025 la gestione del pericolo aflatossina non è più svincolata dai fattori esterni all’allevamento: quelli climatici, sicuramente, ma anche quelli legati alla qualità del mangime e alla gestione della stalla. Ma anzi deve proprio prevedere la valutazione da parte dell’allevatore di tutti questi fattori, perché influiscono pesantemente poi sul risultato finale.
E la riduzione del livello d’allerta a quota 0,040?
Il livello di allerta a 0,040 µg/kg, come limite massimo di presenza di aflatossina M1 nel latte, non è a nostro giudizio un nuovo fattore di costo. Ma un livello che tutela prima l’allevatore, poi l’operatore del settore alimentare (inteso come stabilimento di trasformazione qualunque esso sia, caseificio o centrale del latte), e in ultima analisi naturalmente il consumatore. Questo perché i livelli di oscillazione delle aflatossine, nei mangimi prima e quindi poi nel latte, sono soggetti a numerose variabili, le quali in molti casi sono fuori dal controllo dell’allevatore.
Variabili fuori dal controllo? Per esempio?
Un esempio classico è quello del cambiamento climatico che si è avuto in questi ultimi anni soprattutto nei mesi autunnali e invernali. Con un aumento delle temperature minime che ha determinato una maggiore persistenza delle muffe e conseguentemente una maggiore probabilità di formazione di aflatossine. Basti pensare che in Lombardia nell’ultimo anno la temperatura d’inverno è scesa al di sotto dei zero gradi centigradi soltanto per meno di dieci giorni lungo tutto l’arco del periodo autunno-invernale. Con ripercussioni importanti su tanti aspetti della conservazione sia dei mangimi che degli alimenti destinati all’alimentazione animale; ma anche con un notevole impatto poi sulla gestione della stalla.
Aumento delle temperature minime.
Sì, e questo non è l’unico aspetto legato al cambiamento climatico che finisce per favore le aflatossine. Pensiamo per esempio alle grandinate. Queste spaccano le pannocchie e questa situazione assieme all’umidità è la condizione migliore perché si abbia lo sviluppo di muffe e conseguentemente di tossine. Se a questo aggiungiamo il caldo e una altissima umidità relativa otteniamo la condizione migliore perché le tossine si formino già addirittura a livello di coltura. Cioè non mi si formano dopo che ho raccolto il mais ma me le ritrovo direttamente nel campo e questi eventi estremi sono effettivamente devastanti per il pericolo aflatossina.
Il fungo in questione è l’Aspergillus flavus.
Esatto. Ed è facilitato da questi nuovi eventi climatici. Una volta il temporale si verificava alla fine di agosto ed era finita lì. Ora ormai le grandinate ce le abbiamo ai primi di giugno. E il problema non è solo l’eventuale grandinata che spacca le pannocchie, il problema è in ogni caso l’elevata umidità nel campo, seguita da picchi di calore. Tanto è vero che le emergenze che c’erano state in passato erano dovute non solo al caldo ma proprio anche all’umidità. Il caldo secco invece di per sé la muffa l’ammazza, è il caldo umido che la favorisce.
Molti sostengono che uno dei vari fattori che favoriscono le aflatossine è la mancanza di disponibilità idrica, la siccità…
Attenzione: siccità e caldo umido descrivono condizioni climatiche molto differenti. Tant’è vero che il processo di essiccazione inteso come caldo secco è la cosa che permette di eliminare le muffe. L’essiccazione è il procedimento forse più importante dopo la raccolta della granella, fornire caldo secco. Qui invece la situazione è esattamente l’opposto, il caldo umido, ingigantito quando l’evento meteo estremo, come una grandinata, spacca le pannocchie o i chicchi del mais, perché in quel caso c’è una penetrazione che è decisamente importante per la diffusione del fungo e delle tossine.
Fin qui il cambiamento climatico. Altri fattori fuori dal controllo dell’allevatore oltre al clima?
Un altro fattore che purtroppo è fuori dal controllo è l’origine della materia prima del mangime. Un esempio molto attuale: quando c’è stata l’inizio della guerra in Ucraina l’approvvigionamento di granella e quindi di mais nel giro di poco tempo si è spostato dall’Ucraina stessa, che è uno dei nostri più importanti fornitori, ad altri mercati alternativi, tra quali ad esempio quello del Sud America. Questo ha comportato che la stessa materia prima, anziché giungere sul mercato dell’Unione europea nel giro di una settimana, in molti casi è stata importata direttamente da mercati extraeuropei, quali ad esempio quelli del Sud America.
L’origine della materia prima è cambiato: dall’Ucraina ad altre zone, fra le quali il Sud America…
Quindi trasporto in nave, periodi di tempo decisamente più lunghi, condizioni di trasporto chiaramente non sotto il controllo dal punto di vista della catena del freddo perché stiamo parlando di granella. E infatti si era potuto notare anche la presenza di picchi di aflatossine proprio in contemporanea con l’utilizzo di materie prime provenienti da altri mercati.
In conclusione, fra le principali variabili al di fuori del controllo dell’allevatore abbiamo segnalato per esempio il cambiamento climatico e l’origine dei mangimi. Ma passiamo ora a quello che invece l’allevatore può fare, contro la presenza di aflatossine.
Quello che invece l’allevatore può fare naturalmente riguarda la gestione dell’allevamento, la corretta gestione del mais e della granella che lui stesso coltiva e porta poi a essicazione, la corretta gestione delle farine e di tutti gli insilati. E poi la somministrazione dei mangimi agli animali, la gestione del benessere degli animali. In questi casi il coinvolgimento dell’allevatore è diretto. Anche il benessere animale ha una sua influenza sulla gestione della qualità del latte.
Dunque sono numerose le possibili iniziative di prevenzione che può prendere l’allevatore.
L’allevatore ora sa che deve basare la propria gestione del pericolo aflatossine sull’analisi del rischio. Quindi ha la possibilità di intercettare un livello di aflatossina nel latte che, pur essendo al di sotto del limite di accettabilità, si sta avvicinando a questo limite. E dunque l’allevatore ha la possibilità di porre in atto tutte quelle procedure che evitano il superamento del limite di 0,050 e conseguentemente il blocco e la distruzione del latte.
Anche prima di arrivare a quota 0,040 µg/kg latte…
Per esempio apprendere che il latte sta passando da un livello di assenza di aflatossine a un livello che si avvicina al valore di 0,040 permette all’allevatore di intervenire. Intervenire magari con una valutazione di come è stata ottenuta la granella, delle procedure di essicazione, della qualità degli insilati… Oppure intervenire richiedendo approfondimenti sulle farine che lui stesso ha acquistato sul mercato e che magari potevano essere proprio l’origine di questo tipo di contaminanti.
Tra il 2013 e il 2025 l’allevatore non era chiamato a questo tipo di precauzioni?
L’allevatore è sempre stato chiamato a queste precauzioni perché l’attività di autocontrollo, come si suol dire dal campo alla tavola, c’è sempre stata. Diciamo che in condizioni di emergenza, come quella disegnata dalle norme del 2013, il numero e la frequenza dei prelievi erano dettati dalla situazione contingente e l’allevatore si adeguava passivamente a un obbligo; pertanto il muoversi in una situazione dettata dall’emergenza faceva sì che tutto fosse delegato esclusivamente all’analisi sul latte.
Quindi un ruolo centrale dell’analisi del latte che diventava anche limitante.
Finché l’analisi sul latte non gli dava alcun tipo di indicazione, molto probabilmente l’allevatore non era spinto ad andare a fare determinate verifiche per quanto riguarda gli aspetti di rischio che abbiamo citato prima. Si muoveva soltanto nel momento in cui si ritrovava ad avere una problematica evidente di presenza di aflatossine nel latte, o quando il danno ormai era fatto.
E ora si parla di analisi del rischio.
Secondo noi la novità più significativa delle nuove indicazioni è quella di spingere l’allevatore a capire la necessità di svolgere un’analisi del rischio partendo proprio dal suo ruolo attivo. E probabilmente questo aiuterà molto l’allevatore anche per la gestione di altre problematiche. Per esempio, nell’ambito dell’allevamento suino, la peste suina. Nell’ambito dell’allevamento bovino, l’afta, che come sappiamo è alle porte… Proprio perché anche l’allevatore deve rendersi conto che la sicurezza del prodotto finito comincia da lui.
E cosa diciamo agli allevatori che sostengono che le nuove norme portano a un aggravio dei costi?
Se devo valutare solo ed esclusivamente il costo analitico, applicando correttamente il percorso dell’analisi del rischio, mi devo abituare a considerare l’analisi del laboratorio non come una cosa puntuale che deve essere fatta in momenti fissi, ma soltanto come la certificazione che tutto quello che ho messo in atto, e che abbiamo detto prima, è corretta. Quindi noi ci aspettiamo, e questo è l’obiettivo di queste linee guida, che l’analisi per aflatossina serva per certificare che il percorso di autocontrollo e di analisi del rischio è corretto, tant’è vero che sono al di sotto dello 0,040.
Da qui l’utilità di un limite più basso.
Ecco perché interviene il limite più basso: se qualcosa mi sta sfuggendo, ho la possibilità di saperlo prima che mi si blocchi il latte. Quindi se mettiamo sul piatto della bilancia da una parte cosa mi costa un’analisi, o meglio cosa mi costa l’adeguamento al percorso di gestione, e dall’altra gli eventuali effetti negativi dettati dal blocco del latte e dalla distruzione del latte, direi che non c’è assolutamente termine di paragone.
Sì, c’è una bella differenza. Dunque il nocciolo del problema è la gestione del rischio.
Certo. E c’è da sottolineare per di più che noi come istituto, in collaborazione con i caseifici, siamo a completa disposizione anche per aiutare a formulare questi piani di gestione dei rischi attraverso tutta una serie di interventi che vanno dalla corretta gestione dell’approvvigionamento delle materie prime, alla corretta gestione degli insilati, alla corretta gestione della stalla attraverso l’analisi di tutti i parametri.
Ma nella pratica l’allevatore cosa deve fare quando acquista il mangime?
Prima di tutto deve garantire che le materie prime che lui acquista, a maggior ragione perché le acquista e non le autoproduce, siano certificate per assenza di aflatossina. E quindi deve avere il possesso dei documenti che garantiscono che sono aflatossina-free. Soprattutto deve avere a disposizione anche la tracciabilità di quello che compra, di quello che dà all’animale. Il mangime che compra deve essere tracciato, altrimenti in caso di problemi è ovvio che non posso risalire.
E oltre al mangime?
L’allevatore, qualora lo utilizzi, deve verificare che l’insilato di mais sia di ottima qualità. Un terzo aspetto riguarda l’analisi del latte, che viene fatta direttamente dall’allevatore o su indicazioni del primo acquirente nell’ambito del pagamento del latte a qualità.
Guardiamo all’analisi del latte che viene fatta direttamente dall’allevatore.
Ci sono due strade. La prima vede i campioni di latte raccolti dal primo acquirente, che nell’ambito del pagamento del latte a qualità richiede anche l’analisi delle aflatossine. Quindi nel momento in cui il campione arriva qui in laboratorio, in accordo con l’allevatore oltre al pagamento al latte qualità si fa anche l’aflatossina. La seconda possibilità vede l’allevatore agire in regime di autocontrollo; quindi è l’allevatore che decide di andare a prelevare il latte dalla sua cisterna e lo porta al laboratorio per fare l’analisi delle aflatossine.
Il pagamento latte a qualità è caratterizzato da un minimo di due prelievi al mese.
Mentre invece per l’analisi dell’aflatossina nulla vieta all’allevatore, proprio magari in concomitanza con un valore che comincia ad alzarsi verso il livello di allerta, di intervenire direttamente con un campionamento in regime di autocontrollo e di portarlo al laboratorio per capire effettivamente se l’andamento sta davvero andando a rialzo o meno. Anche per intervenire molto rapidamente, magari con l’utilizzo di sequestranti o con la sostituzione di una farina o di un mangime del quale non ha evidentemente tutte le possibili garanzie.
Eventuali sostituzioni del mangime.
Questo è quello che deve fare l’allevatore. Prima alcune di queste operazioni l’allevatore non le faceva perché si operava in un regime di emergenza ed era tutto delegato al risultato analitico che veniva svolto nell’ambito del pagamento del latte a qualità. Una situazione in cui l’allevatore era forse meno stimolato ad approfondire la situazione o a tenerla sotto controllo. Diciamo che finché tutto andava bene, tutto andava bene. Se qualcosa andava male c’era sempre l’effetto sorpresa: “ah, non so come mai si è verificato questo problema andiamo a vedere se per caso è la farina”; oppure l’analista chiamava l’allevatore e gli chiedeva “ma hai aperto una nuova trincea, hai aperto un nuovo integratore, un nuovo mangime?”. E lo si faceva solo dopo il risultato analitico.
Lo si faceva solo a posteriori.
Solo dopo il risultato analitico si andava a fare una valutazione. Ora invece si ribalta la questione. Importante anche solo il fatto di tenere traccia, la tracciabilità, poter registrare che a partire da oggi l’allevatore ha aperto una nuova partita di mangime e verificare il giorno dopo, la settimana dopo, che da un livello di aflatossine che era inferiore a 10 si comincia per esempio ad avere 25-30 e quindi far scattare un campanello d’allarme. Questa tracciabilità prima non si faceva, o si faceva poco.
Le linee guida del 2025 non sembrano evidenziare grosse differenze nel capitolo “Sistema di autocontrollo della filiera dei mangimi”. Sembrano introdurre novità soprattutto nel capitolo “Sistema di autocontrollo della filiera lattiero casearia.
Sostanzialmente per i mangimi è rimasto tutto confermato. Il nostro discorso sul sistema lattiero caseario è che ora l’allevatore deve fare un passaggio mentale, mettersi nell’ordine di idee di condurre un’analisi del rischio. Che non è una cosa difficile, non ci vuole molto. Semplicemente deve abituarsi a gestire correttamente le operazioni che vengono effettuate in azienda, e a registrarle. In modo tale che quando c’è un problema lui sia in grado di risalire all’origine: l’acquisto di quel mangime, l’apertura di quella trincea… e di correlare quindi un evento, che è la presenza dell’aflatossina nel latte, con un’operazione che lui normalmente ha fatto.