Che il mercato del latte stia attraversando ancora oggi l’onda anomala del Coronavirus è plasticamente rappresentato da due situazioni apparentemente divergenti fra loro. Da un lato, la posizione di Rabobank, la più grande banca del settore agroalimentare, i cui analisti prevedono una recessione globale che metterà di conseguenza sotto pressione i prezzi del latte anche nel 2021.
Dall’altro, il segnale di ripresa del latte spot in Italia, figlio di una ripresa della domanda o, almeno, di una ripresa degli stabilimenti di trasformazione del latte verso ritmi più vicini alla fase pre Covid-19.
Lo scorso 18 maggio, infatti, le quotazioni alla Borsa merci a Milano hanno registrato un incremento rispettivamente del 5,83% per la materia prima nazionale (arrivato a 31,75 €/100 kg) e dell’8,04% per il latte intero in cisterna proveniente dalla Germania, ritornato sopra i 30 euro al quintale.
Una crescita ancora più vistosa è stata registrata dal latte spot di importazione francese (+8,74%), che tuttavia, collocandosi a 28 €/100 kg, rimane sotto la linea simbolica dei 30 centesimi al chilogrammo. Ma il segnale positivo è già di per sé molto confortante.
Quotazioni più elevate, sempre lunedì 18 maggio, sulla piazza di Verona. La Borsa merci scaligera ha valutato le spinte rialziste di mercato del latte crudo spot a 33 €/100 kg, con un balzo del 6,45% rispetto alla quotazione precedente.
Toccano i 31 euro al quintale le quotazioni del latte intero spot provenienti da Austria e Germania, in crescita del 10,71% rispetto al listino precedente. Un bel salto in avanti.
Perché lo spot aumenta
Per gli analisti del Clal non c’è stupore nel leggere i dati e una spiegazione c’è. Come sempre, la fiammata del mercato è riconducibile alla legge di domanda e offerta.
L’aumento del prezzo del latte in cisterna non soggetto a contratti di fornitura superiore ai tre mesi (questa la categoria dello spot) deve essere ricondotto a una ripresa della domanda di latte, tanto italiano quanto di importazione.
Senza dubbio, il progressivo miglioramento della diffusione del Covid-19, l’entrata nella cosiddetta “fase 2” con la ripresa delle attività artigianali, industriali, e la riapertura del canale horeca, per quanto quest’ultima sia soggetta all’incognita della effettiva frequentazione di hotel, bar, ristoranti, mense, pizzerie, con un turismo ancora completamente assente (il vuoto visto a Venezia è emblematico), ha comunque aumentato la richiesta di latte.
A trascinare la domanda, con ogni probabilità, è stato il ritorno all’attività dei caseifici che producono mozzarella e formaggi freschi, entrambi duramente colpiti dal calo dei consumi nel periodo di confinamento, dove gli acquisti si sono orientati più su produzioni e formaggi a più lunga conservazione.
Grana e Parmigiano
Sul fronte dei formaggi Dop a pasta dura, il mercato di metà maggio segna una flessione. Lieve perdita per il Grana Padano “stagionato 10 mesi”, che in Borsa merci a Mantova ha perso lo 0,76%, rotolando a 6,50 euro al chilogrammo. Più contenuta la diminuzione nella categoria “Riserva 20 mesi”, che perde lo 0,57% e atterra a 8,65 euro al chilogrammo.
Leggermente più marcata la frenata per il Parmigiano Reggiano: -2,17% il risultato discendente della quotazione di lunedì 18 maggio a Milano, per un valore di 7,90 €/kg nella categoria di stagionatura “12 mesi”. Giù dell’1,48% anche il Parmigiano Reggiano “stagionato 24 mesi”, che quota 9,98 euro al chilogrammo.
Quali strategie adotteranno i due Consorzi per invertire la rotta e dare stabilità ai prezzi di mercato?
Un contenimento delle produzioni è un’opzione molto presa in considerazione e vi è consapevolezza in questa direzione non soltanto da parte dei dirigenti, ma anche del sistema produttivo (tanto industriale quanto cooperativistico), alla luce di una flessione delle esportazioni, penalizzate nei mesi di marzo e aprile dal confinamento e dalle difficoltà a varcare le frontiere sia per questioni logistiche sia per i minori consumi che all’estero vedono nel canale della ristorazione un traino insostituibile.
Diminuire le quantità di latte prodotte è una delle risposte – forse la più efficace – per ristabilire un maggiore equilibrio fra domanda e offerta. La riduzione temporanea delle consegne è auspicata peraltro in molti paesi europei e non solo.
L'incremento delle produzioni Ue
Fra gennaio e marzo l’Unione europea ha prodotto quasi 40 milioni di tonnellate di latte, il 2,8% in più rispetto al primo trimestre del 2019.
Tutti i Paesi comunitari (comprendiamo anche il Regno Unito, nonostante la Brexit, sino a una sua definitiva uscita dal mercato europeo, ndr) hanno prodotto di più, con eccezione di Romania, Lettonia e Croazia, Paesi che nel bilancio lattiero comunitario rivestono per dimensioni un peso non significativo a spostare l’ago della bilancia.
La Germania, primo produttore europeo di latte ha segnato l’1,9% in più su base tendenziale. Crescono anche la Francia (+2,1%) i Paesi Bassi (+3,8%) il Regno Unito (+2,8%), la Spagna (+5%) e, l’Irlanda (+3,6%), La Danimarca (+0,7%) e il Belgio (+5,5 per cento).
Questo ha portato inevitabilmente a una diminuzione dei prezzi del latte.
Nei giorni scorsi gli allevatori tedeschi sono scesi in piazza per chiedere alla Commissione europea di definire strumenti in grado di orientare verso una riduzione temporanea e vincolante delle eccedenze di latte in tutti i paesi dell’Ue.
La Bdm, l’Associazione tedesca dei produttori lattiero caseari, teme un calo progressivo dei listini e una perdita di valore aggiunto della materia prima per inseguire la diminuzione dei consumi d alcuni prodotti. L’attenzione del presidente della Bdm, Stefan Mann, va oltre la proposta di sostenere gli stock avanzata dalla Commissione europea.
“L’ammasso privato – ha spiegato Mann - è uno strumento molto utile per compensare le fluttuazioni stagionali a breve termine delle consegne, ma non può rappresentare una misura efficace e sostenibile contro una crisi del mercato globale come quella attuale”.
Secondo la Bdm, un nuovo aumento delle scorte andrebbe ad “appesantire il mercato per anni e finirebbe per ostacolare la ripresa”. Meglio, dunque, lavorare per un contenimento delle produzioni di latte.
Nel mondo
Anche nel Regno Unito, che ormai è fuori dall’Unione europea, la situazione non è del tutto rosea. Secondo la National Farmers Union, di gran lunga il principale sindacato agricolo britannico, un’azienda su quattro a indirizzo lattiero sta lavorando in perdita.
Una prima risposta è arrivata nei giorni scorsi dal Defra, il Dipartimento per l’Ambiente, l’Alimentazione e gli Affari Rurali, che ha annunciato un allentamento delle norme sulla concorrenza per venire incontro al settore. Agricoltori e produttori possono ora cooperare per ridurre temporaneamente la produzione, o per determinare la capacità di trasformazione del latte in eccesso in formaggio o burro.
Una maggiore flessibilità, che dovrebbe favorire una rapida reazione dei mercati, in caso di ripartenza.
Quello che preoccupa le filiere in questa fase è il combinato disposto di un incremento delle produzioni fra i principali paesi produttori di latte (+2,7% fra gennaio e aprile rispetto allo stesso periodo del 2019 per Argentina, Australia, Bielorussia, Cile, Nuova Zelanda, Ucraina, Ue-28, Usa, Uruguay) e una diminuzione delle esportazioni, che nel primo quadrimestre del 2020 segnano il passo, perdendo il 4% su base tendenziale.
La Cina, finalmente, ha ripreso le importazioni e potrebbe aiutare una ripartenza del motore mondiale nel settore lattiero caseario.
Il caso Italia
L’Italia, che rappresenta l’8% delle consegne di latte comunitarie, ha prodotto fra gennaio e marzo di quest’anno 3.244.000 tonnellate, il 3,7% in più su base tendenziale.
Molto del futuro del prezzo della materia prima dipenderà non soltanto dall’andamento del mercato tedesco, ma anche delle produzioni di Grana Padano.
Quale futuro
Monitorare il mercato è fondamentale. Tuttavia, non è imprenditorialmente sano pensare in modo negativo. Al contrario, una chiave di lettura meno drammatica e improntata a una sana fiducia nel futuro, sapendo appunto adattare alla situazione attuale nuove soluzioni (alleanze fra produttori, nuove partnership di filiera, sostegno al territorio, al benessere animale e alla sostenibilità produttiva, incentivi diretti alle imprese per l’export.
Non tutte le voci del lattiero caseario sono infatti caratterizzate dal segno meno. L’ultima asta in Oceania (Global Dairy Trade, fonte: Clal.it) ha visto un balzo della polvere di latte scremato (Smp) del 6,7% rispetto alla precedente quotazione di inizio maggio. Un primo segnale che gli scambi internazionali stanno ripartendo.
L’Unione europea è chiamata a sviluppare strategie coese e di medio e lungo termine, valorizzando le esportazioni (in primis verso Cina e Sud Est Asiatico, mercato in espansione, ma anche consolidando i rapporti con gli Usa e cercando di riattivare il canale con la galassia che gravita intorno alla Federazione Russa), favorendo in una prima fase emergenziale gli stock, sostenendo i processi di internazionalizzazione e attuando, anche attraverso latte, polveri e formaggi politiche estere di ampio respiro.
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(Nel numero 10.2020 dell’Informatore Zootecnico, in uscita la prossima settimana, molti più dati e molte altre analisi)