Prandini: punto fermo la redditività dell’allevatore

Prandini
Il presidente Coldiretti sull’evoluzione del comparto lattiero caseario nazionale. “Ogni analisi e ogni iniziativa devono avere come primo riferimento la solidità del bilancio dell’azienda zootecnica”

La chiave interpretativa per comprendere i trend tecnici ed economici della zootecnia da latte, il punto di vista in base al quale guardare ai problemi e alle opportunità? Il punto fermo da cui partire, sia per le analisi sia per le iniziative, resta sempre uno solo: la redditività dell’allevatore. Tutto il resto è conseguente.
La prospettiva non potrebbe essere diversa quando colui che discute di zootecnia da latte, come avviene anche in occasione di questa intervista, è un rappresentante degli stessi imprenditori come Ettore Prandini, presidente Coldiretti.
Presidente Prandini, attraversiamo un periodo in cui la redditività dell’allevatore si dimostra particolarmente consistente, con prezzi del latte alla stalla a livelli record. Tutto questo quali conseguenze può avere? Per esempio: si può affermare che grazie a questa maggiore solidità economica l’allevatore vanta anche un maggior potere contrattuale nei confronti della controparte industriale, dato che teme un po’ meno di dover sottostare a imposizioni?
Negli ultimi due anni il comparto zootecnico è riuscito a rafforzare il proprio valore medio, non si tratta di un record, ma di un necessario riequilibrio all’interno della filiera. Tuttavia questo risultato non basta. Stiamo infatti assistendo, soprattutto nel settore lattiero-caseario, a tentativi di ridurre quanto oggi viene riconosciuto alle imprese agricole. È un rischio che non possiamo accettare, daun lato dobbiamo garantire stabilità al mercato, dall’altro assicurare certezze ai nostri allevatori. Allo stesso tempo serve la massima attenzione verso le speculazioni di soggetti esterni alla filiera, in particolare sulla compravendita di burro. Il percorso è ancora lungo, ma il nostro obiettivo dev’essere chiaro: niente facili entusiasmi, consolidiamo il reddito degli allevatori e costruiamo basi solide per il futuro del settore.
Un’altra problematica conseguente all’attuale maggiore disponibilità economica dell’azienda zootecnica può essere questa: finalmente i nostri allevatori possono fare investimenti più importanti rispetto a quelli routinari che si effettuano normalmente in altri periodi. Tipo una nuova stalla, nuovi terreni, nel Parmigiano Reggiano acquisto di quote, un trattore… Come interpreta questa eventualità?
L’auspicio, ma di questo sono convinto conoscendo i nostri allevatori, è che gran parte del valore del reddito che oggi questi hanno venga reinvestito all’interno delle imprese zootecniche; e che l’investimento venga fatto principalmente su quello che è, diciamo così, il luogo in cui l’attività viene svolta, quindi la stalla. Tutto il sistema legato al benessere animale (quindi i sistemi di raffrescamento, di ventilazione, lo stesso sistema delle lettiere, sia per le stalle che hanno lettiere permanenti sia per i sistemi con cuccette) ha goduto di un tale livello di innovazione che ci ha portato, diciamo così, a non avere più quelle grandi differenze in termini produttivi che c’erano sino a pochi anni fa fra il periodo estivo e gli altri mesi dell’anno. E anche questo diventa per noi un grande valore aggiunto perché così pure nel periodo estivo, vista anche la richiesta di prodotto che abbiamo da altre zone produttive, riusciamo a dare una giusta remunerazione al lavoro dei nostri allevatori.
Dunque è in primo piano il benessere animale.
Io penso sempre che il primo investimento che si deve fare in una azienda zootecnica debba essere legato alla vita dei nostri animali. E quindi il tema del benessere animale diventa centrale, perché laddove c’è benessere tu diminuisci i costi aziendali, sia per quanto riguarda l’utilizzo del farmaco, sia nel creare maggior capacità produttiva con lo stesso numero di capi allevati; quindi anche sotto questo punto di vista aumenta anche il beneficio che poi l’allevatore ottiene.
E l’idea di effettuare investimenti volti a incrementare il numero dei capi?
In un momento come questo, sicuramente con meno preoccupazioni rispetto a qualche anno fa, bisogna stare attenti a non eccedere nel numero di capi allevati, perché dobbiamo sempre rimanere in una situazione di equilibrio. Finché c’è sempre un po’ più di domanda rispetto all’offerta continueremo a difendere il prodotto; se invece dovessimo eccedere nelle produzioni il rischio è che poi gradualmente il prezzo tenda un po’ a diminuire.
Questa sua affermazione può essere quasi interpretata come un invito. Nel senso che, di fronte a prezzi alla stalla particolarmente elevati, potrebbe risultare spontaneo per l’allevatore concludere che sia meglio invece affrettarsi a produrre più latte possibile.
No, noi dobbiamo guardare a quello che è il fabbisogno interno al nostro Paese. Negli ultimi anni l’Italia è stata uno degli Stati membri che percentualmente è cresciuto di più nelle produzioni rispetto ad altri che invece le hanno diminuite, penso a Francia e Germania, che comunque restano fra i primi produttori europei in termini di quantità di latte. Noi dobbiamo avvicinarci all’autosufficienza, penso che questo debba essere il risultato che noi ci poniamo come obiettivo finale... Guardando ovviamente a una capacità di commercializzazione della produzione che sia legata tanto al mercato interno quanto all’export. Se siamo riusciti a dare un giusto valore ai nostri prodotti lattiero caseari è anche perché abbiamo aumentato in modo rilevante le esportazioni di alcune tipologie di prodotti che hanno creato soddisfazione anche per il resto della filiera.
In occasione di un’altra intervista per l’Informatore Zootecnico il presidente Granarolo Gianpiero Calzolari invitava gli allevatori produttori di latte a non esagerare né con l’offerta né con le pretese di prezzo.
Io penso che noi dobbiamo guardare alla redditualità dell’azienda. Per troppi anni abbiamo guardato ad altri aspetti all’interno della vita delle nostre imprese, erano magari momenti storici diversi. Oggi la cosa sulla quale noi ci dobbiamo impegnare è quella di mantenere un giusto reddito per il lavoro che noi svolgiamo. Quindi come in tutte le cose, come in tutti i mercati, sono domanda e offerta i fattori che fanno la differenza. Eccedere in termini di offerta significa far diminuire percentualmente il prezzo che ci viene riconosciuto.
Insomma anche gli allevatori devono far riferimento al mercato.
Noi imprenditori zootecnici dobbiamo offrire prodotto in base alla crescita del mercato. Se il mercato crescerà ulteriormente nelle esportazioni lo dovremo accompagnare. Se il mercato non crescerà, cosa che noi non auspichiamo, o comunque se dovesse rallentare, è chiaro che un eccesso di offerta rischierebbe di invalidare tutto il percorso che fino a oggi siamo riusciti a creare per quanto riguarda la produzione e la valorizzazione del latte.
Senza ignorare dunque il momento in cui il prodotto arriva al consumatore.
Abbiamo fatto anche un lavoro importante, a livello non solo europeo ma anche con altri paesi a livello mondiale (la nostra è l’unica organizzazione italiana che partecipa direttamente al G20 agricolo, facciamo parte del G7 dell’agricoltura e delle associazioni agricole), su una sensibilizzazione sul consumo di latte e dei prodotti lattiero caseari rivolta a tutti i cittadini a livello globale. Questo è stato fondamentale dal momento che, rispetto a una demonizzazione che abbiamo vissuto qualche anno fa, oggi in tutto il mondo i prodotti lattiero caseari si consumano di più. E di fronte alla richiesta di proteine avanzata oggi dal mercato fortunatamente c’è meno offerta e quindi riusciamo a mantenere i prezzi comunque adeguati.
Questo a livello globale o anche a livello italiano?
Questo a livello globale, ma tutto ciò incide sicuramente sul mercato nazionale. Fra l’altro alcuni paesi che storicamente esportavano in Italia a prezzi medio-bassi oggi non lo stanno più facendo, oppure hanno ridotto fortemente le loro esportazioni; e questo trend ha influito anche sulla valorizzazione del latte prodotto all’interno del nostro paese.
Questa maggiore redditività della produzione del latte comporta, almeno in teoria, diverse altre conseguenze positive. Una di queste possibili conseguenze è per così dire di tipo sociale: è più probabile che si verifichi un concreto ricambio generazionale. Perché quando il giovane vede che riesce a mantenere la propria famiglia dando continuità al lavoro dei genitori in allevamento, è più probabile che decida di rimanere in azienda.
Sotto questo punto di vista io penso che tante volte si è sottovalutato il livello di investimento economico che c’è nella filiera zootecnica (parliamo sempre del settore lattiero caseario). In più oggi quasi ci stupiamo dal fatto che i nostri allevatori riescano a ottenere soddisfazione dal proprio lavoro quotidiano. Io continuo a dire in tutti gli incontri, anche di carattere pubblico, che noi lo dobbiamo pretendere questo valore economico, perché è l’unico modo per spingere anche i nostri figli e i nostri ragazzi a continuare la nostra attività.
Lo dobbiamo pretendere…
Parlo in prima persona essendo padre di tre figli e facendo l’allevatore e il produttore di latte. Sicuramente laddove un giovane vede che c’è soddisfazione, che c’è serenità, automaticamente il ragazzo è invogliato a continuare anche l’attività del proprio genitore. Se diversamente, come purtroppo abbiamo visto e vissuto qualche decennio fa, nella filiera lattiero casearia sono più importanti le criticità che non le positività, allora il ragazzo (nonostante l’entusiasmo e la passione che può avere) si rivolge ad altri settori produttivi: questo noi non lo dobbiamo più permettere. Ed è il motivo per il quale serviranno sempre di più strumenti come studi, analisi di mercato, che ci possano accompagnare rispetto alle scelte che imprenditorialmente andremo a fare.
Ancora a proposito delle conseguenze positive della maggiore redditività e solidità dell’azienda zootecnica da latte: questa nuova situazione potrebbe forse avere riflessi positivi sulla cooperazione e sull’associazionismo. Cioè forse in questo particolare periodo le nostre cooperative e associazioni potrebbero fare un salto di qualità, diventare più forti o più strutturate…
In merito a questo bisognerebbe un po’ recuperare l’insegnamento che proviene dai nostri nonni o dai nostri genitori rispetto al fatto che il sistema della cooperazione, nella filiera zootecnica da latte, ha sempre dato un valore aggiunto in termini economici. Come si è visto soprattutto negli ultimi anni. Quindi ora che l’imprenditore zootecnico dispone di un reddito maggiore, piuttosto che incrementare in modo significativo il numero dei capi allevati, in alcuni casi quasi raddoppiarlo, è meglio sicuramente che pensi di performare maggiormente all’interno della propria impresa. Ma è opportuno anche che una parte di queste risorse venga utilizzata in nuove forme di cooperazione, perché sono quelle che, anche nei momenti di criticità, possono dare comunque delle garanzie in termini di redditualità.
Nuove forme di cooperazione, per esempio?
Be’, lo vediamo proprio in quest’ultimo periodo. Le cooperative che operano sia nel Parmigiano Reggiano sia nel Grana Padano sono quelle che stanno dando il maggior numero di risorse in termini di riconoscimento, in termini di premio, ai soci cooperatori. E sotto questo punto di vista mi piace sottolineare che nella maggior parte di questi casi il maggior numero di aziende sono proprio quelle associate con Coldiretti, proprio perché abbiamo sempre ritenuto che questo potesse essere un modello.
E i caseifici non cooperativi?
Proporre questa argomentazione non vuol certo dire prendersela con l’industria, con l’industria lattiero casearia, ci mancherebbe. Noi imprenditori zootecnici dobbiamo avere la stessa intelligenza e capacità di dialogare anche con l’industria lattiero casearia, perché a sua volta questa possa continuare ad avere soddisfazione della vendita dei propri prodotti sul mercato nazionale, e soprattutto su quello internazionale, allo scopo di poter continuare a remunerare gli allevatori in modo corretto. Quindi non dobbiamo vedere una contrapposizione fra i due modelli, le cooperative e l’industria; dobbiamo capire come performare al meglio siacon gli uni che con gli altri, con l’obiettivo di continuare a dare stabilità al mercato.
Performare al meglio.
Aggiungo che altrettanto importante è tutto il meccanismo legato ad altre attività che possano essere implementate partendo dalla filiera del latte bovino.
Per esempio?
Faccio un esempio concreto: grazie a uno studio scientifico condotto sulle parti di cartilagine dell’animale, possiamo sapere se una vacca in produzione ha una propensione genetica a poter sviluppare o produrre vitelli che siano idonei per la produzione latte. Oppure al contrario possiamo apprendere che quell’animale, che comunque rimane nella sua vita nella filiera della produzione del latte, conviene invece utilizzarlo per un incrocio indirizzato alla filiera della carne.
Stiamo parlando della pratica del beef on dairy.
Esatto. E questo è un altro di quegli indirizzi strategici che noi accompagneremo, grazie anche alla formazione che faremo sui territori, per guidare i nostri allevatori a poter implementare ulteriormente la loro redditualità partendo dal medesimo allevamento, pensando non solo alla produzione del latte ma anche alla produzione della carne, o alla produzione di vitelli che possono essere destinati a quella filiera.
Io aprirei volentieri una parentesi su questa cosa dell’incrocio con seme da carne perché non tutti vedono la cosa come positiva. Per esempio alcuni industriali obiettano che il beef on dairy possa togliere materia prima, vitelli, alla filiera del vitello a carne bianca.
Ma io parto sempre da un elemento, che è quello, lo dico in termini egoistici, del reddito economico dei nostri allevatori. Dobbiamo riferirci al rapporto domanda/offerta: se ci saranno le condizioni per le quali c’è una domanda legata al settore delle carni rosse, una domanda che premi maggiormente i vitelli che provengono dagli incroci che hanno questo tipo di indirizzo, allora: bene. Se invece ci sarà una domanda più spostata sui vitelli a carne bianca, e quindi su quelli più tradizionali bianchi e neri che vengono utilizzati in quella filiera, allora: altrettanto bene. L’allevatore diventa protagonista delle proprie scelte senza dover essere condizionato da soggetti che giustamente fanno i loro interessi ma che appartengono a una filiera leggermente diversa rispetto alla nostra. Quindi in questo caso, lo dico volgarmente, chi paga di più avrà a disposizione l’animale.
L’allevatore diventa protagonista delle proprie scelte.
Battute a parte, io penso che noi dovremmo avere una visione più ampia. Perché se riuscissimo a utilizzare in modo diffuso il percorso di cui prima parlavo, potremmo implementare in modo significativo la disponibilità di vitelli sia per quanto riguarda la filiera della carne bianca sia per quanto riguarda la filiera della carne rossa. È una cosa che noi dovremo sempre di più approfondire in termini di studi della genetica dei nostri animali e rispetto a tutto ciò che riguarda le rimonte interne.
Un’altra criticità legata al beef on dairy può essere questa: nessuno vuole fare lo svezzamento. Perché è una fase d’allevamento particolarmente costosa.
Quest’ultima problematica è legata all’idea di lungimiranza. Quella lungimiranza che è relativa agli investimenti necessari in termini di struttura, sempre allo scopo di difendere i prezzi che vengono poi riconosciuti ai nostri allevatori. Sotto questo punto di vista altri paesi sono più attrezzati rispetto a noi. L’evoluzione dello scenario zootecnico a livello globale ci impone di aprire un ragionamento sulla possibilità di realizzare nel nostro paese 3-4 punti di svezzamento organizzati.
Centri specializzati nello svezzamento.
Assolutamente, e questo secondo me è un tipo di operazione che potrà aiutarci ulteriormente nella ricerca di una crescita importante e di una tenuta di tutte le filiere zootecniche.
Questa idea di estrapolare dalla rimonta una certa fase della rimonta stessa, come lo svezzamento, può essere forse estesa anche a un’altra fase, la crescita della manza. È un’idea simile alla prima: estrapolare dal ciclo di allevamento la fase della crescita della manza potrebbe sgravare la singola azienda zootecnica da una serie di costi piuttosto pesanti.
Sì, è vero. Però è altrettanto vero che sul tema delle manze c’è anche una questione, diciamo così, più di genetica interna all’allevamento. Una questione sulla quale il sistema italiano vede l’allevatore particolarmente geloso di quello che viene fatto all’interno della propria azienda, un po’ come un patrimonio da custodire. Secondo me riuscire a fare dei centri di svezzamento sarebbe già un grande passo in avanti, poi gradualmente nel tempo si vedrà se fare anche altro. I centri di svezzamento, tra l’altro, possono essere anche realizzati in zone in cui non c’è una grande presenza di zootecnia e quindi si potrebbe anche riuscire, fra virgolette, a insediare aree marginali.


Affrontare la crisi della foraggicoltura aprendo anche a nuovi areali

Nessuno lo desidererebbe, ovviamente, ma c’è chi teme che il buon periodo del settore lattiero caseario possa assomigliare al viaggio di un Titanic che si sta dirigendo verso un iceberg. Dove l’iceberg sarebbe costituito dalla crisi della produzione italiana di mais, che sta soffrendo i colpi dell’inesorabile cambiamento climatico. Ma da questo punto di vista Prandini apre a soluzioni innovative.
Presidente Prandini, il vincolo che alcune dop del lattiero caseario devono rispettare, secondo il quale almeno il 50% del foraggio deve provenire dal comprensorio, potrebbe costituire un problema, nel futuro?
Sotto questo punto di vista non è un percorso semplice, bisogna confrontarsi ovviamente con i consorzi di tutela, non deve essere una visione unilaterale, ci mancherebbe. Però io valuterei anche la possibilità, soprattutto per quanto riguarda il settore cerealicolo, quindi quello del mais, di poter aprire in modo più ampio a un territorio di pertinenza.
A quale territorio?
In questo caso sinceramente io vedrei bene il territorio nazionale come elemento distintivo, non solo quello del comprensorio. Perché questo offrirebbe anche la possibilità di distinguere il nostro mais rispetto a quello che viene importato, darebbe certezze ai nostri agricoltori anche nelle filiere cerealicole, si riscoprirebbe la possibilità di implementare le produzioni.
L’idea è ottima, suggestiva, ma bisognerebbe cambiare i disciplinari di produzione…
Oggi noi abbiamo un disciplinare al quale dobbiamo sottostare, l’abbiamo sempre rispettato in modo serio e professionale. Detto questo, però, se ci fosse una visione comune con i consorzi di tutela, che sono i primi custodi sotto questo punto di vista di quella che è una tradizione, e in questo caso una razione, che è sempre stata utilizzata da parte dei nostri allevatori; se ci fosse una visione comune con i consorzi di tutela di possibile confronto con le istituzioni, partendo da quelle nazionali, quindi dal ministero; allora nel caso si potrebbe chiedere una modifica al regolamento comunitario… I disciplinari non sono scritti sulla pietra, quindi tutto è modificabile.
E per quanto riguarda la medica, alimento chiave per le bovine del Parmigiano Reggiano? Anche la produzione di quest’altro tipo di foraggio oggi sta subendo gli effetti del climate change, come la riduzione della disponibilità irrigua…
La medica la produciamo anche in tante altre regioni, abbiamo delle zone della Toscana, dell’Umbria, che fanno dei prodotti che sono altissimi in termini di qualità. Teniamo conto anche del fatto che oggi c’è una situazione di carattere climatico completamente diversa rispetto al passato. O si affrontano i problemi o si fa finta che non ci siano, e quando fai finta che il problema non ci sia prima o poi ti esplode in mano; quindi meglio affrontarlo per tempo.


Utilizzare il digestato come fertilizzante così la zootecnia potrà diventare ancor più sostenibile

“Penso che sia arrivata la stagione – aggiunge infine il presidente Coldiretti – per la quale in Europa si debba prendere atto che quando si parla di sostenibilità si deve riconoscere il lavoro dei nostri allevatori. E prendere atto che oggi la zootecnia italiana può fregiarsi di essere la zootecnia più sostenibile a livello globale. Ma potrebbe essere sostenibile ancora di più se finalmente riuscissero a sbloccare la possibilità di utilizzare il digestato come sostanza fertilizzante naturale del suolo agricolo”.
La necessità di farlo sembra molto sentita, dal punto di vista agronomico.
In quei terreni in cui non utilizziamo sostanza organica abbiamo un impoverimento del suolo che in alcune regioni sta portando a una forma di desertificazione. Non ce l’ho con i prodotti chimici, dico solo che ci deve essere un giusto equilibrio, perché uno sbilanciamento a favore del prodotto chimico significa un impoverimento per il nostro suolo.
Eppure…
Eppure fa specie che tutti parlino di sostenibilità in Europa e quando parli di digestato o di sostanza organica nessuno ne voglia realmente ragionare; nessuno voglia approfondire e fare valutazioni di utilizzo in modo diverso rispetto a ciò che è stato fatto fino ad oggi. Di utilizzo anche nelle zone vulnerabili ai nitrati.
Dunque il digestato da biogas fa emergere nuove potenziali opportunità.
Guardiamo alle possibilità che potrebbero aprirsi se questa nuova idea di utilizzo del digestato potesse essere introdotta come meccanismo, rispetto a un piano colturale: io so quello che vado a seminare, conosco l’assorbimento di azoto, ho a disposizione una risorsa, il digestato, che può essere finalizzata sulla singola filiera produttiva, quindi sul settore vitivinicolo, sul settore ortofrutticolo… Tutto questo ci darebbe la possibilità di aumentare la redditualità economica dei nostri imprenditori perché quello che oggi viene visto come un problema diventa un’opportunità economica. Addirittura nascerebbe la possibilità, anche mediante una forma di pellettizzazione del prodotto, di rendere il digestato trasportabile su tutto il territorio nazionale in sostituzione proprio dei sistemi di concimazione che fino ad oggi abbiamo conosciuto. Io questa continuo a vederla sempre come una grande opportunità per gli imprenditori agricoli e zootecnici, perché la sostanza organica resta un grande valore aggiunto. Ma purtroppo finora, forse solo per ignoranza, la sostanza organica è stata demonizzata sia dall’Europa sia anche da tante nostre istituzioni.

Prandini: punto fermo la redditività dell’allevatore - Ultima modifica: 2025-10-14T12:13:18+02:00 da Giorgio Setti

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