Negli ultimi mesi il prezzo del latte alla stalla ha raggiunto livelli particolarmente elevati. E non è necessario stare a parlare di come possa salutare la cosa l’allevatore. Ma come la interpreta invece l’industriale lattiero caseario? Per lui la quotazione del latte non si riferisce alla voce ricavi ma alla voce costi.
E quando la materia prima latte diventa troppo costosa per l’industriale, questi sarà poi costretto a proporre alla grande distribuzione di adeguare gli importi di acquisto; ma la grande distribuzione potrà anche rispondere di non essere in grado di sostenere aumenti troppo importanti.
Intuibili le ricadute anche sulla stessa azienda zootecnica: se il prezzo del latte diventa troppo alto possono insorgere a cascata problemi di collocazione del prodotto trasformato, con effetti indesiderabili anche sulla soddisfazione economica dell’allevatore. Insomma non si può escludere l’eventualità di ripercussioni negative dei prezzi alti sul bilancio dell’azienda zootecnica; ed è per questo l’Informatore Zootecnico, rivista schierata dalla parte del primo anello della filiera, ha voluto analizzare con razionalità queste dinamiche.
E per condurre l’analisi con il giusto grado di dettaglio e di attendibilità la rivista si è accostata all’interpretazione di un protagonista di primissimo piano della filiera, il presidente di Granarolo spa Gianpiero Calzolari.

La sua lettura della situazione potrà risultare rivelatrice non solo perchè basata su un’esperienza piuttosto solida: sono particolarmente ampi i volumi con i quali Granarolo si accosta al mercato (raccoglie e lavora circa 9 milioni di ettolitri di latte l’anno). Ma anche perché il gruppo lattiero caseario agisce nell’alveo della cooperazione: la spa è controllata al 63% da Granlatte, che è una cooperativa di ben 475 allevatori.
Dunque presidente Calzolari il prezzo del latte alla stalla, in Italia, ultimamente viaggia su livelli particolarmente sostenuti.
Per la precisione non è mai stato così alto. E utilizzo a ragion veduta la parola “mai”.
Ha raggiunto quota 60-65 euro al quintale.
Ovviamente dipende dalla destinazione. Il latte destinato a formaggi duri, ci riferiamo in particolare al grana (perché il parmigiano come sappiamo ha una sua peculiarità, ha sempre mantenuto una differenza importante di valore), oggi sta spuntando delle valorizzazioni importanti in virtù anche delle buone performance che ha avuto in questi ultimi uno-due anni. La quantificazione del prezzo dipende da cosa liquideranno le cooperative del grana; da cosa stanno pagando gli industriali del latte destinato a grana; e infine da cosa stanno pagando le industrie che utilizzano quel latte per fare prodotti di altro tipo. In conclusione oggi il prezzo cui si fa riferimento per il formaggio fresco e per il latte in bottiglia è un prezzo che si colloca intorno ai 60 centesimi, più i premi e le qualità.
Insomma, il prezzo si colloca sui 60 euro.
Sì, questo è più o meno il valore sul quale le grandi imprese, noi, Lactalis, probabilmente un po’ tutti, si stanno orientando. Mentre per quanto riguarda il latte destinato ad uso trasformazione duri, lato industriali, va da 62 a 63, 64, 65 euro al quintale a seconda un po’ delle condizioni. Le cooperative del grana per la liquidazione del 2024 stanno mettendo sul piatto importi più alti, ormai è questione di qualche settimana, un paio di mesi al massimo. E questo perché? Perché come dicevo il grana e il parmigiano hanno avuto dei buoni andamenti di mercato, e la destinazione a formaggi duri sta intercettando una buona quota del latte prodotto anche per altre destinazioni.
Quanto paga il latte la Granarolo?
L’anno scorso abbiamo pagato agli allevatori 53 euro al quintale, mediamente. Quest’anno stiamo pagando 60. E non ci sono aspettative che si verifichi un calo drastico nell’immediato. Passare da 53 a 60 euro vuol dire 7 euro al quintale in più; e quando i quintali di latte sono milioni...
Guardiamola dal punto di vista dell’allevatore: si tratta di aumenti molto importanti dei ricavi aziendali.
Però il problema è trovare un giusto equilibrio. Io sostengo da tempo che le componenti della filiera debbano trovare un luogo di riflessione sul prezzo, un prezzo che non può sempre essere frutto di una relazione muscolare: manca latte, costa tanto, c’è troppo latte, costa poco.
È chiaro che però c’è un problema: davanti a questi prezzi, oppure, nel caso del trasformatore, davanti a questi costi di produzione, con quale valore andiamo a presentare i prodotti finiti? Come andiamo poi sullo scaffale, nel rapporto con la grande distribuzione?
Lì cominciano i problemi, perché la grande distribuzione a sua volta deve ribaltare i prezzi sul consumatore e il consumatore ha delle difficoltà oggettive. Appare un po’ una battaglia tra poveri.
Il prodotto allora va sullo scaffale a un valore del 10% superiore? Cito questo dato perché ultimamente sul Sole24Ore lei ha affermato che Granarolo ha calcolato un aumento dei propri costi di produzione pari a questa percentuale; con un’incidenza del costo dell’energia sul fatturato passata dal 4 al 6% e con un aumento del 4-6% dei costi delle materie prime, in particolare del latte.
Sì, l’aumento dei nostri costi potrebbe essere anche di un 10% in più. Quindi vuol dire che c’è la necessità di discutere con la grande distribuzione dove si possa trovare un punto di caduta. È chiaro che noi non possiamo mai ragionare in modo automatico: costa di più e io ti ribalto il costo, costa di meno e io mi prendo il costo. Dobbiamo aprire dei tavoli di riflessione.
La forza contrattuale di Granarolo nei confronti della grande distribuzione consiste, oltre che nella qualità dei prodotti, nelle grandi quantità: Granarolo lavora 9 milioni di ettolitri di latte all’anno.
Non solo. La nostra forza contrattuale consiste anche nella riconoscibilità. La nostra fortuna è un brand riconosciuto dal consumatore, è qui la nostra fortuna, frutto di un lavoro fatto in settant’anni di vita. E quindi sappiamo che se noi presentiamo la necessità di coprire dei costi il consumatore non si gira dall’altra parte. Però non possiamo neppure pensare che tutti i problemi vadano a finire sulle spalle del consumatore, perché è un consumatore che ha avuto e ha tuttora difficoltà a far tornare i propri conti.
Ma all’interno del bilancio familiare l’acquisto del latte può anche essere poca cosa.
Vero, ma è anche vero però che se poi questo tipo di considerazione si applica a ognuno dei generi alimentari di cui una famiglia ha bisogno, allora in totale si raggiungono importi significativi. Quindi dobbiamo essere consapevoli che oggi una buona parte delle famiglie è in difficoltà, non possiamo non tenerne conto. Si tratta di capire come, in questi casi, le diverse componenti della filiera si debbano dividere il compito di arrivare sullo scaffale con un prezzo che non sia quello che comprende tutti i costi, ma che non sia neanche quello che ignora gli aumenti. Serve una trattativa.
La trattativa con la grande distribuzione ogni quanto tempo la effettuate?
Normalmente bisogna aprire questa riflessione quando si arriva al punto in cui sono evidenti degli aumenti consistenti, aumenti che non siano la fiammata di un momento. E la prima reazione della gd ovviamente è di indisponibilità. Poi le insegne chiaramente sanno che noi non ci muoviamo per imporre sbrigativamente delle condizioni; se ci muoviamo invece è perché oggettivamente siamo di fronte a un aumento dei costi di produzione. Bisogna però anche evitare che la parte allevatoriale si lasci prendere la mano, che pensi che questo prezzo possa crescere all’infinito.
L’Informatore Zootecnico è un giornale per allevatori. E credo che sia molto importante per il nostro giornale analizzare questa sua ultima affermazione.
Io credo che il mondo allevatoriale, nel suo rapporto con il mondo della trasformazione, in particolare con il mondo della cooperazione, debba muoversi per salvaguardare il reddito delle aziende zootecniche evitando che un calo eccessivo del prezzo del latte comprometta la capacità, la tenuta della stessa azienda agricola. Ma che debba anche evitare che un aumento eccessivo delle quotazioni poi comprometta la capacità di acquisto da parte del mercato e quindi comporti il rischio di un calo dei consumi. O comunque comporti il rischio che i consumi vadano a spostarsi su prodotti magari di minor valore e di minore qualità.
Non c’è da tener conto solo del trend del prezzo. Si deve tener presente anche un altro fattore oggettivo: ultimamente sembra che sia ferma l’offerta complessiva di latte.
Sì, la situazione di contesto è che non c’è moltissimo latte. Non siamo di fronte alle carenze del 2022, ma diciamo che l’offerta di latte oggi è in calo soprattutto in Europa; questo per la questione della Germania, che ha un problema di afta epizootica; per il problema dei Paesi Bassi, che hanno vincoli ambientali, lì stanno veramente decimando le mandrie per rientrare in parametri compatibili con la normativa europea.
Dunque si può dire che, contrariamente a quanto molti operatori affermavano qualche anno fa, oggi non siamo di fronte al pericolo di un’invasione del latte estero.
Sì, perché tutto questo latte in più che ci poteva essere anni fa (ricordiamo le quote latte, eccetera) oggi non c’è più. Sono carenti anche all’estero, ogni paese tende a tenersi il proprio latte. Poi c’è sicuramente ancora del movimento, però non è così importante come poteva essere 5, 6, 7 o 8 anni fa, quando c’era il tema delle quote, quando c’erano dei numeri che facevano paura… tutti ricordano le cisterne di latte tedesco che arrivavano al confine.
Insomma, oggi in Italia non c’è tutto quel latte, tutta quella materia prima, di qualche anno fa. Quantitativi che fra l’altro permettevano all’industria di contenere la richiesta dei produttori.
Esatto. In questo momento invece gli allevatori sono in condizione di esercitare una richiesta importante. E questo di per sé è un dato positivo, perché la mia teoria è che noi abbiamo bisogno di avere una filiera dove tutte le componenti stiano bene. Quindi se riusciamo a mantenere un prezzo del latte su livelli per così dire dignitosi allora vuol dire che l’allevatore è tranquillo, vuol dire che la logistica è tranquilla, vuol dire che il trasformatore è tranquillo, e la grande distribuzione anche. Abbiamo le condizioni per ragionare in casa di quello che può essere un prezzo che dia serenità alla filiera, che dia prospettiva alla filiera…
Avere una visione di prospettiva è importante per un imprenditore zootecnico che voglia fare degli investimenti.
Certo. E se si vuole fare degli investimenti bisogna fare in modo che ci sia un volume di latte che consenta all’allevatore di avere una massa importante sulla quale poi impostare il proprio bilancio aziendale. E che ci sia un livello di prezzo altrettanto utile.
In quest’ambito qual è stata la politica della Granarolo?
Noi come gruppo cooperativo con nostri soci abbiamo puntato molto sui volumi. Prima delle quote latte noi raccoglievamo 4 milioni e mezzo di ettolitri di latte, oggi ne raccogliamo 9 milioni; quindi abbiamo sostanzialmente raddoppiato il volume di latte in dieci anni. Il che significa che abbiamo consentito ai nostri allevatori di dire: io faccio un investimento, ho uno sbocco sereno al mio latte perché la mia cooperativa, il mio gruppo, me lo ritira e me lo valorizza al migliore dei prezzi possibili, che non vuol dire mai un miracolo però. E quindi abbiamo visto le nostre aziende zootecniche fare negli anni investimenti di milioni di euro (perché gli allevatori che hanno fatto investimenti hanno speso milioni di euro, questo bisogna ricordarlo ai nostri clienti); non è che uno chiede che gli venga pagato bene il latte perché guarda ad altro. Se va in banca, investe, fa un mutuo, è perché vuole comprare magari un robot, vuole aumentare la mandria… tutta gente che ha speso veramente milioni, sapendo però che può contare su un certo volume di prodotto, che la sua azienda cresce, che può sostenere l’investimento… Bisogna che ci sia volume e anche prezzo.
E anche possibilità di arrivare poi sul mercato. Da qui l’idea, prima suggerita da lei, che la parte allevatoriale non debba esagerare con le richieste nei confronti dell’industria.
La parte allevatoriale non dovrebbe pensare che sia giusto chiedere, chiedere, chiedere. Sì, il mondo allevatoriale è più forte di qualche anno fa, ma teniamo conto che alla fine l’ultima parola la dirà il consumatore.
Alla fine l’ultima parola la dirà il consumatore.
Sì, e noi cominciamo a registrare segnali di difficoltà da parte di alcune catene; non ancora in Italia, dove da tempo il mercato è stabile o in leggera flessione; però stiamo cominciando a vedere che in Europa o negli Stati Uniti quelle catene prima di far conoscere i listini dicono: “Vediamo se ci sono alternative a quello che tu mi stai proponendo. Le mozzarelle italiane sono buonissime, però magari noi abbiamo anche delle mozzarelle tedesche che costano di meno”. Oppure: “Il formaggio italiano è buonissimo, però poi il Gouda è un formaggio che si mangia. E pure il latte fresco è buonissimo, però posso andare sull’ Uht…”.
Quindi il suo messaggio è che c’è un nesso fra prezzo e acquisto.
Non bisogna pensare che questo nesso non ci sia. E per garantirsi i volumi che stanno dietro agli investimenti, investimenti fatti sia dal lato distribuzione sia dalla parte allevatoriale, bisogna dedicare attenzione alla figura che alla fine decide un po’ la nostra sorte, che è il consumatore.
Diceva che uno dei vostri punti di forza che mettete sul piatto nella trattativa con la grande distribuzione è che il vostro brand è riconosciuto dal consumatore.
Sì, il nostro brand è riconosciuto dal consumatore. Ma oggi la grande distribuzione può contare anche su una quota del 30-35% di prodotto a marca del distributore. E su quello noi rischiamo: noi possiamo anche aumentare l’offerta dei prodotti di marca, ma poi sullo scaffale ci ritroviamo accanto la mozzarella, il litro di latte, lo stracchino a marchio del distributore. Quando questi prodotti costano solo un po’ meno dei nostri ce la possiamo giocare. Ma quando invece costano molto di meno dei nostri allora rischiamo di perdere quel cliente. Quindi magari arriviamo allo scaffale, ma poi non andiamo nel frigo di casa. Ergo la volta successiva lo scaffale non lo vediamo più.
Quindi c’è la novità della concorrenza del prodotto a marca del distributore.
La vera novità oggi (che però è un dato europeo, quindi non dobbiamo subito fasciarci la testa) è che la grande distribuzione su buona parte dei prodotti a scaffale ha costruito una propria rete, a proprio marchio, con dei fornitori che evidentemente non giocano sul brand ma che sono disponibili a giocare sul prezzo.
Lei dimensionava questo fenomeno nel 30-35% in Italia, ma in Europa?
In Europa è anche di più. In Europa in alcuni casi siamo intorno al 50%. In Italia dedichiamo attenzione alla storia delle marche. Però 20 anni fa non esisteva la marca del distributore, 15 anni fa era una piccola cosa, 10 anni fa era un inizio, oggi è una realtà. Oggi l’aggregato della marca del distributore è il più grande marchio italiano; e si misura sul prezzo, dunque anche sul prezzo della materia prima.
Quindi quando voi vi confrontate col mercato non vi confrontate solo con i vostri competitor.
Oltre al normale competitor abbiamo un interlocutore, che è la grande distribuzione, che è contemporaneamente cliente e competitor. Si gioca con queste regole qui, non è che possiamo dire no, non partecipo. Sicuramente neppure loro potranno affermare che il latte non sia aumentato, perché è un dato oggettivo. La cosa buona è che dal momento che mancano consistenti quantità di latte nessuno sta facendo grosse speculazioni. In passato no, come sappiamo: c’era chi comprava a basso prezzo e poi andava alla grande distribuzione.
E cosa succederà quando il grana, se mantiene questi andamenti di mercato, aumenterà l’offerta dai 4,5 milioni di forme di oggi via via sino ai 7 milioni di forme del 2030?
Per fare una forma servono 600 litri di latte. Se passano a 7 milioni di forme viene a mancare latte su altri mercati. Per esempio viene a mancare latte sul mercato della mozzarella, che magari paga di più in questo momento. Poi non facciamo degli automatismi perché sarebbe sbagliato. Però davanti a noi abbiamo il fatto che oggi a questi prezzi gli allevatori stanno facendo i salti mortali per produrre latte; perché a 60 euro il latte l’industria lo divora. A 60 euro, chi può munge, perché ottiene reddito. Chi può non vende le manze, se le tiene in stalla. Gli allevatori che possono farlo cercano di produrre più latte possibile, perché con un’opportunità così...
Però la produzione totale di latte non aumenterà.
Più latte di quanto ne facciamo oggi l’Italia non ne potrà produrre. Le aree marginali? È impensabile tornare a fare del latte sull’appennino, nessuno aprirà delle nuove stalle in montagna. Dunque in Italia non si riesce a produrre più latte di quanto ne facciamo oggi. E di questo l’industria ha consapevolezza: se vuoi continuare a fare i prodotti ti devi tenere il latte che ti dà il tuo fornitore, perché di più di così non ne arriverà. Inoltre dall’estero arriva anche meno latte di prima, e il latte estero non ha dei prezzi così incredibilmente bassi. E quindi è interesse dell’industria, che deve trovare materia prima, pagare il latte col giusto prezzo allo scopo di preservare anche la propria filiera.
Voi fra l’altro vi collocate nell’ambito della cooperazione… Per voi il rapporto con i fornitori è abbastanza semplice perché avete come interlocutore Granlatte.
Noi abbiamo una filiera che inizia nel campo, prima ancora che nella stalla; poi va nella stalla, poi va nelle cisterne che portano in giro il latte, poi va nei nostri stabilimenti… Alla fine nel nostro bilancio ci sono due soggetti diversi, che si parlano: Granlatte, la cooperativa di allevatori, e Granarolo, che trasforma e distribuisce. Lo stesso ragionamento oggi lo sta facendo anche l’industria privata: non puoi fare il gorgonzola se non hai il latte dell’areale. Non puoi neanche fare la burrata italiana se non hai il latte della zona di produzione.
Quindi tutto questo premierà le cooperative, premierà chi riesce a tenersi stretti gli allevatori…
Premierà chi è organizzato. E quindi è per questo che dico che è un momento positivo, sia per l’allevatore sia per il prezzo. Lo è proprio perché questa situazione rafforza il ruolo centrale dell’allevatore. Ma non bisogna andare avanti sperando che vada sempre così: bisogna cominciare secondo me a mettere dei paletti, a fare dei contratti seri, lunghi nel tempo…
Lo si è visto nel recente passato, quando voi avevate aumentato il prezzo alla stalla in un periodo in cui non aumentava. Le vostre scelte fra l’altro hanno un’influenza che va anche oltre la vostra base di fornitori. E quindi questo vostro orientamento risulterà interessante anche per gli allevatori che non fanno parte di Granlatte.
Assolutamente. Vale per Granlatte, ma vale ancora di più per chi non è in Granlatte, perché questo mondo secondo me sta cambiando un po’ i rapporti di forza. L’organizzazione cooperativa in primo luogo, o in ogni caso un accordo di filiera, possono dare un po’ più di dignità alla parte primaria rispetto a quello che magari c’è stato negli anni passati. E possono riequilibrare un po’ i rapporti di forza. Ma tutto questo senza esasperare i rapporti, perché se esasperiamo torniamo da capo.
A proposito di cooperazione, Granlatte pone limiti produttivi?
Granarolo e Granlatte si confrontano. Poi Granlatte comunica a Granarolo i quintali di latte disponibili o che può prevedere. E Granarolo risponde: bene, su questa base noi facciamo il nostro piano industriale; ma se ci servisse più latte hai più latte? Granlatte parla coi propri soci e se i propri soci possono fare la stalla nuova, bene; se no può aprire ad altri soci. È chiaro che anche in questo caso non è che Granlatte può aprire all’infinito perché poi si arriva troppo avanti. Eravamo a circa 4 milioni di ettolitri nel 2003, il primo anno delle quote latte, e oggi nel 2025 siamo a 9 milioni. Tra Granlatte e gli allevatori soci c’è un rapporto in cui a domanda dell’allevatore la cooperativa risponde sì o no. Io allevatore voglio aumentare la produzione? La cooperativa dice: guarda, tu puoi aumentare, perché in quella zona lì c’è spazio (abbiamo diviso per zone). Oppure la cooperativa può rispondere: siamo in un momento di sovrapproduzione. Oppure: mi chiedi di aumentare 10? ti consento di aumentare 5. A questo punto uno fa i suoi conti.
È un esempio del grande ruolo anche di regolatore del mercato che possono giocare le cooperative.
Tutte le cooperative hanno un piano di produzione. Ma in realtà ce l’hanno anche le aziende private, perché poi sulla base di questo disegnano i propri progetti. E non è solo una questione di contenimento dell’offerta: anche l’entità dei volumi che puoi offrire al mercato ha un forte ruolo nella riuscita delle trattative dell’industria. Guardiamo per esempio all’esportazione. Se vuoi fare export di latte devi avere una dimensione che ti consente di dire: adesso andiamo in Grecia, in Svezia, In Germania, cominciamo a trattare e se prendo la commessa sono in grado di farvi fronte. Quindi la dimensione è importante. Se uno pensa di andare alla fiera con due cisterne di latte può anche stare a casa. E quindi tanto vale che ti aggreghi. L’aggregazione sarebbe la grande carta da giocare in Italia.
Be’, i soggetti più abili nell’aggregazione sembrano le cooperative.
La cooperazione aggrega perché di fatto è l’esperienza più comprensibile. La vera aggregazione è quella della cooperativa. Per il resto possiamo avere accordi duraturi nel tempo, fatti seriamente, però sempre un po’ attaccabili. Mentre la cooperativa agisce statutariamente: cosa vuol dire essere un socio? Che finché un socio della nostra cooperativa decide di produrre del latte noi abbiamo l’obbligo prima di tutto morale, etico, ma anche statutario, di andare a prendere il suo latte anche se fosse l’ultima stalla in cima alla montagna, e anche se andarlo a prendere fosse più costoso. Così manteniamo la base sociale.
(intervista uscita sul numero 5.2025 dell’Informatore Zootecnico, 17 marzo 2025; qui la versione impaginata: IZ 5 Calzolari )









