Il settore della produzione animale è visto, da parte dell’opinione pubblica, più come una problematica piuttosto che come una risorsa. Spesso ci si dimentica di come l’introduzione nella dieta di alimenti di origine animale abbia migliorato il benessere fisico, in termini di nutrizione, di buona parte della popolazione mondiale.
Non è possibile negare però che nella realtà ci si trova di fronte a una zootecnia intensiva rappresentata soprattutto da bovini da latte, da carne e da suini e che, in Italia, è concentrata principalmente a livello di Pianura Padana.
Secondo Maria Teresa Pacchioli del Crpa (Centro Ricerche produzioni animali) di Reggio Emilia, intervenuta durante il convegno sul tema della sostenibilità del sistema agro zootecnico da latte organizzato da Comazoo - Cis di Montichiari (Bs) e da Carb (Cooperative agricole riunite bresciane) di Ghedi (Bs) il 20 febbraio scorso presso il centro fiera di Montichiari, «è necessario inserire la zootecnia mondiale in un contesto di sostenibilità». Il concetto di sostenibilità va inteso però globalmente, in termini di compatibilità ambientale e quindi di protezione delle acque dall’inquinamento da nitrati e di emissioni di gas a effetto serra e in termini di compatibilità etico – sociale e quindi in accordo con la sensibilità e il benessere sia del consumatore che degli animali allevati.
Non va dimenticato inoltre che la zootecnia è un’attività economica, che rappresenta il mestiere e quindi la remunerazione di qualcuno; pertanto la sostenibilità va intesa anche in termini economici.
In sostanza, ci troviamo di fronte a un apparente paradosso che richiede di produrre di più utilizzando meno o meglio le risorse a disposizione. Si andrà sempre di più verso modalità operative basate sulla precisione di uso dei fattori di produzione. Non sarà più possibile sprecare acqua, energia, risorse e lavoro.
L’“impronta di carbonio” per misurare l’inquinamento
Oggi, parlare di sostenibilità ambientale significa in primis conoscere i concetti di inquinamento delle acque superficiali e profonde, di gestione dei nitrati e di escrezione dell’azoto. Per misurare il grado di impatto ambientale di una attività economica si è introdotto il concetto di “impronta del carbonio” considerando che su qualsiasi prodotto finale rimane una sorta di impronta, segno indelebile dell’uso di tutti i fattori di produzione utilizzati per creare un determinato bene. Per dare origine a un prodotto si consumano energia, risorse, tempo e lavoro e sul prodotto rimane un segno di questi fattori di produzione.
In particolare il termine “impronta del carbonio” deriva dal fatto che ogni fattore impiegato in un processo di produzione porta alla produzione di anidride carbonica (CO2) che è quel gas che si forma ogni volta che bruciamo qualcosa per trarne energia e che rappresenta l’elemento di misura dell’inquinamento. Nel caso dell’agricoltura sono importanti anche altri due gas: il protossido d’azoto (N2O) che si genera dall’azoto che distribuiamo sia come fertilizzanti chimici che come deiezioni (sia in stoccaggio all’aperto che con gli spandimenti), e che ha un potente effetto serra, addirittura 300 volte più alto della CO2; il metano (CH4) derivante dalle fermentazioni enteriche dei bovini allevati.
Quindi quando si parla di impronta del carbonio di parla soprattutto di produzione di gas a effetto serra che, lasciando passare in entrata i raggi del sole ma impedendo il passaggio in uscita di quello che si riflette, generano una cappa di calore con conseguente alterazione del clima. Le conseguenze che ne derivano le stiamo oggi toccando con mano, siccità alternata ad alluvioni e aumento progressivo delle temperature medie; basti pensare a quanto si è alzata la latitudine alla quale si può coltivare il mais e a tutti quei paesi nostri fornitori che fino a 50 anni fa non avevano le caratteristiche climatiche per poterlo produrre. Il cambiamento del clima è molto importante per l’agricoltura non solo perché da esso si genera ma anche perché da esso subisce gravi ripercussioni.
Diverse strategie per ridurre le emissioni
Secondo quanto riportato dagli esperti al convegno, l’ambizioso obiettivo di produrre latte in un contesto di sostenibilità aziendale può essere raggiunto attraverso la messa in atto di diverse strategie in grado di ridurre l’impatto ambientale della filiera produttiva.
Vediamo quali.
Aumentare l’efficienza produttiva della singola bovina
Considerando che nel settore dei bovini da latte l’impronta del carbonio è espressa su singolo chilogrammo di latte, più alta sarà la produzione, minore sarà l’impronta sul chilogrammo di latte che produciamo. Infatti, in questo modo si distribuiscono i fattori impiegati che producono gas a effetto serra su un quantitativo più alto di latte.
Basti considerare che dal 1990 al 2012 l’agricoltura ha ridotto del 16-18% le proprie emissioni, proprio grazie alla riduzione del numero di vacche a parità di latte prodotto.
Ridurre la quota di rimonta
Il secondo aspetto sul quale puntare, suggeriscono gli esperti, è l’efficienza riproduttiva e la durata della carriera della vacca. Ciò porta all’abbassamento della quota di rimonta che, così come pesa sui costi, incide anche sulle emissioni in termini di maggiore o minore presenza di animali improduttivi che emettono metano che grava sul latte prodotto.
Migliorare l’autosufficienza alimentare dell’azienda
Un altro fattore da non dimenticare, aggiungono i relatori del convegno, è l’uso di alimenti in acquisto, come ad esempio la soia che proviene dal Sud America e che si porta dietro un forte carico di impronta di carbonio legato alla sua produzione e al trasporto. Sfruttando meglio la produzione di proteina locale, derivante ad esempio dalla medica, dal pisello proteico o dal favino, si potrebbe ridurre enormemente l’acquisto di concentrati migliorando l’autosufficienza alimentare dell’azienda.
Ottimizzare la digeribilità dei foraggi
Da non dimenticare inoltre l’importanza della digeribilità dei foraggi prodotti che implica un miglioramento delle fermentazioni enteriche con minore emissione di metano e un miglioramento dell’efficienza d’uso dell’azoto da parte degli animali, che in questo modo ne emetteranno meno.
Valorizzare dei reflui
Un’oculata gestione delle deiezioni può ridurre enormemente la liberazione di gas serra; la copertura degli stoccaggi ha un potere di mitigazione delle emissioni del 10%, mentre l’impianto di un biogas ha un effetto di riduzione del del 15%.
Riuscire a usare i reflui non come qualcosa di cui liberarsi bensì come una risorsa è un altro dei passaggi fondamentali per praticare una zootecnia più sostenibile.
Infatti, passando dalla pratica dello spandimento forzato, in momenti in cui non ci sono le colture e quindi quando gli asporti sono minimi, alla distribuzione dei liquami in sostituzione dei concimi chimici, quando le colture sono in atto e stanno crescendo e hanno un maggiore fabbisogno di azoto, porterebbe da una parte alla riduzione del residuo di azoto che viene perso nell’atmosfera e dall’altra alla riduzione dell’acquisto di azoto di sintesi.
Adottare corrette pratiche colturali
Infine, quando si parla di impronta del carbonio, si fa riferimento al bilancio di ciò che immettiamo e ciò che viene liberato in atmosfera; tutte le pratiche colturali che permettono di stoccare carbonio, e quindi sostanza organica nel terreno, diminuiscono la quantità di carbonio che se ne va in atmosfera.
Crpa: la pianificazione colturale
Nel corso degli anni il Crpa, oltre a occuparsi degli aspetti tecnici produttivi, si è addentrato negli aspetti economici delle produzioni agronomiche e della filiera del latte.
Come risaputo l’alimentazione incide per il 60% del costo di produzione del latte, di cui la metà è data dall’acquisto di concentrati e l’altra metà da quello che l’azienda è in grado di produrre.
Secondo Aldo Dal Prà, del Centro ricerche produzioni animali, gli elementi su cui agire per ridurre l’incidenza di tale costo sono pochi. Il primo è il prezzo di mercato del latte che risulta difficilmente influenzabile, a meno che gli allevatori si trovino riuniti in gruppi di produzione (ad esempio cooperative di vendita del latte) in grado di movimentare grossi quantitativi di latte.
Cercare di fare economia sulla base delle materie prime (ad esempio la soia che a oggi ha un prezzo estremamente conveniente), risulta anch’esso infruttuoso a causa dell’andamento oscillante del loro mercato.
Più ragionevole risulta concentrarsi sulle autoproduzioni aziendali di foraggi che devono essere caratterizzate dalla massima capacità di apporto di sostanza organica digeribile e di proteina per ettaro coltivato.
Le rotazioni sono alla base delle valutazioni che vanno fatte all’inizio della campagna. Lo scopo è quello di affrancarsi dal deficit che ogni azienda ha per l’acquisto di proteina e sostanza organica sul mercato. Tenendo in considerazione le esigenze alimentari della propria stalla (forte importanza all’erba medica nelle stalle a Parmigiano Reggiano e al silomais nelle stalle a Grana Padano), è possibile attuare delle modifiche alle rotazioni in grado di aumentare l’autosufficienza alimentare di proteina e di sostanza organica.
Prendendo ad esempio quanto rappresentato dal grafico 1, il cambio di destinazione del mais, oltre a spalmare le epoche di raccolta per la trinciatura e la trebbiatura, assicurando una maggiore elasticità in caso di andamento meteorologico negativo, permette di avere un aumento dell’autoproduzione di proteina del 17% e di energia netta latte del 12%.
Erba medica e cereali autunno vernini
Secondo Fabrizio Ruozzi, della Fondazione Crpa studi e ricerche, le foraggere sulle quali puntare per incrementare l’autosufficienza alimentare dell’azienda sono l’erba medica e gli erbai di cereali autunno vernini.
Per quanto riguarda l’erba medica, la scelta varietale deve tenere in considerazione il fattore di dormienza, cioè la capacità di proteggersi dal freddo andando in quiescenza vegetativa invernale. Infatti, se la medica è colta in fase di vigore vegetativo da brinate o gelate primaverili possono essere intaccate le gemme della corona che danno origine ai ricacci, dandole una minore durata (ideale sarebbe un impianto di 4 anni). Inoltre, notevole importanza deve essere data dalla scelta di varietà che si sappiano adattare alle condizioni pedo - climatiche della zona di coltivazione.
Da un punto di vista agronomico, sia che si tratti di erba medica che di cereali autunno vernini, la scelta dell’epoca di raccolta è l’aspetto che più può influenzare l’autoproduzione aziendale. In linea generale con l’avanzare dello stadio di maturazione le produzioni aumentano e si assiste a un progressivo calo della proteina.
Concludendo, una produzione di foraggi aziendale razionale e di qualità può contribuire a ottimizzare l’alimentazione delle bovine, ridurre la dipendenza dai costi di mercato, assicurare una filiera più corta e controllata e quindi più sicura, e infine migliorare la compatibilità ambientale dell’allevamento.
L’importanza della presentazione fisica della fibra
In conclusione, secondo quanto riportato dagli esperti durante il convegno, fornire all’animale una razione con un corretto rapporto foraggi/concentrati è necessario al mantenimento di una buona produzione quantitativa e un adeguato tenore lipidico. Il foraggio andrebbe incluso perciò in razione in quantità non inferiore al 55%.
Molto importante è anche la presentazione fisica della fibra. Foraggi e razioni unifeed troppo sminuzzate influiscono negativamente sul grasso del latte; la fibra lunga infatti aumenta i tempi di ruminazione e favorisce la secrezione di saliva, neutralizzando l’eccessiva acidità del rumine. I cereali autunno vernini, trinciati a una lunghezza non superiore a 1-2 cm, semplificano, nella preparazione della razione unifeed, quella che è la gestione del taglio degli alimenti in quanto sono semplicemente caricati e miscelati al resto degli ingredienti. In tal modo donano sofficità alla razione e omogeneità alla miscelata con un “effetto fibra” in grado di stimolare la ruminazione.
(*) L’autrice è dell’Ufficio tecnico della Comazoo (Cooperativa miglioramento agricolo zootecnico) di Montichiari (Bs)
(**) L’autrice è dell’Ufficio tecnico della Comab (Commissionaria agricola bresciana) di Montichiari (Bs).
L’articolo completo è pubblicato su Informatore Zootecnico n. 7/2016
L’edicola di Informatore Zootecnico