Sono molti gli aspetti che influiscono sulla vitalità economica di un’azienda, ma in particolare, per quanto riguarda gli allevamenti di bovine da latte, l’efficienza riproduttiva risulta essere un fattore chiave nel determinare tale aspetto. Una buona efficienza riproduttiva infatti è in grado di favorire un incremento della vita media produttiva degli animali (riducendo così il tasso di rimonta), permettere un maggiore numero di vitelli nati per anno, accelerare il miglioramento genetico della mandria ed aumentare il tasso di riforma volontario.
Così, sono sempre di più oggi gli allevatori che si dimostrano interessati a individuare e risolvere le cause dell’infertilità delle proprie bovine da latte, con lo scopo di evitare le rilevanti perdite economiche che ne derivano.
È per questo motivo che nel presente articolo si è deciso di approfondire tale argomento riportando quanto detto dagli esperti del settore al XLVII congresso nazionale della Società Italiana di Buiatria (Sib) tenutosi dal 11 al 12 settembre scorso a Piacenza, presso il Centro congressi Piacenza Expo. Il congresso rappresenta ogni anno un’occasione importante di aggiornamento e confronto scientifico sui temi e sulle problematiche più attuali nel campo della buiatria.
Approccio moderno integrato al problema cisti ovariche
Secondo quanto riportato nella relazione “Approccio moderno integrato al problema cisti ovariche: veterinario nutrizionista e veterinario clinico collaborano per interventi efficaci” presentata da Andrea Beltrami (veterinario libero professionista) e Claudio Vezzani (Veterinario alimentarista specialista in sanità animale) durante il XLVII congresso Sib, le cisti ovariche rappresentano uno dei principali problemi riproduttivi nella bovina da latte, che, con l’interruzione della regolare ciclicità e l’allungamento dell’intervallo parto-concepimento, si ripercuotono negativamente sul rendimento economico d’allevamento. Inoltre, la maggior parte delle volte, gli approcci e l’assistenza tecnica proposti dai veterinari clinici e alimentaristi nei confronti di tale problematica risultano spesso inefficaci.
Diventa pertanto necessario trovare una soluzione efficace che possa prima di tutto determinare in maniera corretta il problema delle cisti e in seguito risolvere il problema
I relatori presentano così, in occasione del congresso Sib, un nuovo approccio per determinare in maniera corretta il problema delle cisti e fornire le migliori soluzioni costo-beneficio.
(Tutti i dettagli e gli approfondimenti sono disponibili consultando la versione integrale dell’articolo “Approccio moderno integrato al problema cisti ovariche: veterinario nutrizionista e veterinario clinico collaborano per interventi efficaci” pubblicata sulla Rivista di Buiatria).
Le basi dell’approccio
Un corretto ed efficace approccio, hanno spiegato Beltrami e Vezzani, prevede una collaborazione interprofessionale tra veterinario clinico, veterinario alimentarista e allevatore, oltre che moderne acquisizioni scientifiche relative al problema. Tali figure inoltre, devono possedere competenze professionali di alto livello e la capacità di poterle applicare di volta in volta alla realtà che si ha davanti.
È proprio dall’interazione tra queste figure, hanno sottolineato i relatori, che può emergere un metodo di lavoro che permetta di inquadrare correttamente il fenomeno e attuare terapie e pratiche di prevenzione efficaci.
La fisiologia riproduttiva
del post-parto nelle bovine
Entrando nello specifico, l’approccio proposto da Beltrami e Vezzani ha l’obiettivo di definire un percorso di post-parto corretto. Tenendo in considerazione che tutti quei fattori che influiscono sul ritardo della ripresa della ciclicità ovarica della vacca da latte dopo il parto possono rappresentare dei potenziali fattori di rischio per l’insorgenza delle cisti, ciò che deve interessare al team di lavoro ginecologo-alimentarista, hanno spiegato gli esperti, è la gestione della ripresa dell’attività ovarica dopo il parto.
Questa infatti “rappresenta un processo fisiologico a tappe che, anche in animali sani e privi di patologie, può presentare alcuni rallentamenti che vanno compresi e interpretati correttamente per evitare problemi diagnostici e successivamente tipologie di intervento dispersive e poco efficaci e che alimentano le paure dell’allevatore con conseguente rallentamenti negli ingravidamenti”.
Il primo passo da compiere, hanno spiegato i relatori, è quello di conoscere i normali meccanismi fisiologici delle bovine, al fine di stabilire in maniera corretta se la ripresa dell’attività ovarica è stata o meno normale. Ottenere un indicatore di “malfunzionamento” dell’attività ovarica in questa fase iniziale permetterà infatti di intervenire nella gestione degli animali per tempo.
Per questo diventa indispensabile la buona capacità di rilevamento calori dell’allevatore e/o l’uso di strumenti innovativi come il dosaggio del progesterone (utile a valutare la presenza o meno di cicli ovarici); con questi “strumenti” infatti l’allevatore riuscirebbe già ad avere un’idea dell’andamento della ripresa della ciclicità attorno ai 25-30 giorni.
Solitamente invece, considerando che le prime due ovulazioni sono caratterizzate rispettivamente, nel 90% dei casi la prima, e nell’80 % dei casi la seconda, da assenza di segni di calore, le informazioni dei primi 30 giorni della vacca non vengono annotate. L’assenza di informazioni, hanno fatto notare i relatori, si traduce in una classificazione errata delle patologie follicolari che si sono presentate durante questo periodo.
Principali fattori che influiscono sulla ripresa
della ciclicità ovarica
“Un approccio sbrigativo e risolutivo che spesso soddisfa l’allevatore e deresponsabilizza l’alimentarista ed il veterinario clinico” è pertanto sconsigliato, hanno detto gli esperti; al contrario è fondamentale andare a fondo affrontando gli aspetti gestionali che hanno una forte influenza sulla ripresa della ciclicità ovarica.
Sicuramente, l’alimentazione gioca un ruolo fondamentale in questo senso, hanno detto gli esperti; un alterato rapporto calcio/fosforo e la carenza di vitamin A o betacarotene per esempio possono condizionare in maniera significativa la ripresa dell’attività ciclica. Di conseguenza diventa necessario attuare delle strategie alimentari efficaci.
Un altro fattore che può condizionare la ripresa della ciclicità, hanno specificato i relatori, è per esempio la chetosi, “intesa come conseguenza di una non corretta asciutta (sovracondizionamento per BCS elevato, lunghezza impropria sia eccessiva che troppo breve) e per insufficiente copertura dei fabbisogni o come conseguenza di patologie (podali, mammarie soprattutto)”.
Anche la sanità dell’utero risulta essere un fattore condizionante: l’involuzione e la presenza di infezioni dell’utero anche lieve (endometrite) possono infatti portare ad alterazioni dell’assetto ormonale dell’animale.
Infine è fondamentale tenere sotto controllo anche il rischio di acidosi e sub-acidosi ruminale che alterando l’ambiente ruminale, “indispongono l’animale e creano un perturbamento delle capacità immunitarie dell’animale nonché un’alterazione della normale fisiologia metabolico-ormonale anche se non in forma diretta”.
Moderno sistema di comunicazione
veterinario-allevatore
Durante il convegno, i relatori hanno voluto inoltre sottolineare quanto sia importante modificare il sistema di comunicazione tra veterinari e allevatori. Come prima cosa si ritiene necessario sostituire il termine “cisti ovariche” con il concetto più ampio e meglio corrispondente alla realtà di “corretta, ritardata o patologica ripresa dell’attività ovarica nel post-parto”. Tale nuovo concetto, hanno detto gli esperti, tenderebbe a “ridurre fortemente quello che per decenni è stato attribuito al solo aspetto delle cisti come unico argomento atto a descrivere una situazione non normale o mal-diagnosticata dell’attività dell’ovaio”.
Il moderno concetto di “corretta ripresa dell’attività ovarica” tiene invece conto di molti aspetti della gestione e dell’interpretazione della stessa che convergono e che vanno considerati tutti insieme per poter avere un effettivo e concreto inquadramento della questione cisti.
Il termine “cisti”, hanno sottolineato Beltrami e Vezzani, andrà così inteso come un “tentativo malriuscito di ripresa della normale attività post parto, inficiante solo quando la diagnosi viene sbagliata o la persistenza ne determina un effettivo ritardo nella capacità delle bovine di essere ingravidate”. Solo così, attribuendo un corretto nome ai fenomeni biologici e ricorrendo a professionisti di alto livello per gli aspetti ginecologici-nutrizionali-gestionali, sarà possibile inquadrare e risolvere con più facilità il problema.
L’approccio descritto da Beltrami e Vezzani permetterà così all’allevatore di mettere in atto le soluzioni meno onerose e più efficaci.
Nella versione integrale della relazione, disponibile sulla Rivista di Buiatria, vengono riportate in modo dettagliato la definizione moderna di cisti ovarica, le procedure di diagnosi consigliate e le terapie.
L’efficienza riproduttiva della bovina può variare
a seconda della razza
In un altro intervento effettuato durante il XLVII congresso Sib da E. Tuccillo, Giuseppe Bifulco, Gianluca Neglia (del Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell’Università di Napoli Federico II), Domenico Coronati, Antonio Natale, Francesco Salzillo (Veterinari liberi professionisti, Caserta), A. Salerno (Veterinario libero professionista, Catanzaro) e Rosario Cimmino (del Dipartimento di Scienze e Tecnologie dell’Università del Sannio, Benevento) si è parlato di efficienza riproduttiva nella frisona e nella bruna italiana.
In particolare, nella loro relazione dal titolo “Efficienza riproduttiva nella frisona e nella bruna italiana mantenute nelle medesime condizioni di allevamento”, riportata anche nella Rivista di Buiatria, è stato messo in evidenza che l’efficienza riproduttiva della bovina può variare anche a seconda della razza.
Vediamo in che modo.
Ruolo chiave della genetica nei fattori
che determinano l’efficienza riproduttiva
Negli ultimi anni, hanno detto i relatori, si è assistito ad una riduzione dell’efficienza riproduttiva nelle vacche da latte, in particolare a una riduzione dei tassi di concepimento; le cause del calo della fertilità, hanno sottolineato gli esperti, sono correlabili a diversi fattori:
- attenuazione delle manifestazioni estrali nelle bovine altamente produttive;
- mortalità embrionale;
- dismetabolie (in particolare nel periodo post-partum);
- interazioni con il sistema immunitario;
- fattori genetici.
Il management è sicuramente un fattore di primaria importanza nel mantenere un elevato livello di fertilità e di produzione della mandria, hanno proseguito gli esperti, ma come già accennato anche la genetica gioca il suo ruolo; la sola variabilità di razza, hanno aggiunto gli autori, può infatti risultare determinante quando si parla di fertilità bovina.
Per dare dimostrazione di quanto detto, gli esperti hanno fatto riferimento ad alcuni recenti report del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America (USDA), nei quali “è stato possibile confrontare tutte le razze, nonché gli incroci presenti negli USA, mettendo in evidenza che la fertilità bovina differisce tra razze anche quando il livello di management della mandria è lo stesso”.
Così, anche il lavoro presentato da Tuccillo e colleghi, ha avuto come scopo quello di valutare l’efficienza riproduttiva delle due principali razze da latte bovine allevate in Italia (la Frisona Italiana e la Bruna Italiana) mantenute nelle medesime condizioni di alimentazione e management.
I parametri valutati
Lo studio condotto da Tuccillo e colleghi, sì è svolto all’interno di un’azienda bovina collocata in provincia di Catanzaro, nella quale erano allevate bovine di razza Frisona e bovine di razza Bruna. Nell’azienda, hanno spiegato i relatori, erano presenti circa 160 capi adulti e le due razze erano equamente rappresentate. Gli animali, come precedentemente detto, erano sottoposti alle medesime condizioni di alimentazione e management.
Per ciascuna razza sono stati valutati i principali parametri riproduttivi e la produzione mensile di latte (quantità e qualità) per un periodo di 4 anni. In particolare, con lo scopo di valutare i parametri di fertilità per ciascuna delle razze prese in considerazione, “è stato messo a punto un database elettronico, in cui sono stati registrati la matricola sanitaria del soggetto, la data di nascita, l’ordine di parto, la data di parto e tutti gli eventuali trattamenti farmacologici effettuati nell’arco dei 4 anni”.
Per ciascun soggetto, hanno infine detto gli autori, si sono valutati i seguenti indici:
- età media al primo parto (EMPP);
- intervallo parto-1° inseminazione (IPPS) = numero di giorni intercorsi tra il parto e il primo intervento di inseminazione strumentale;
- intervallo parto–concepimento (IPC) o days open = numero di giorni intercorsi tra il parto e la prima inseminazione che ha dato seguito ad una gestazione;
- numero di inseminazioni per concepimento (NISC) = numero di interventi fecondativi necessari per dar seguito ad una gestazione;
- intervallo interparto (IIP) = tempo intercorso tra un parto e quello successivo;
- tasso di fertilità medio (TFM) = calcolato mediante il rapporto tra il numero di soggetti gravidi sul numero di soggetti inseminati) *100;
- vita media produttiva (VMP) = intesa come numero di lattazioni registrate per ciascun soggetto e da cui dipende il tasso di rimonta.
I risultati ottenuti
Dai risultati ottenuti, e riportati al convegno da Tuccillo e colleghi, si è potuto vedere che:
- la Bruna ha mostrato un EMPP significativamente maggiore rispetto alla Frisona (881,6±14,7 vs 818,8±9,9 giorni). L’EMPP, hanno inoltre aggiunto gli esperti, rappresenta un parametro particolarmente importante per le reddittività dell’azienda, poiché dalla sua riduzione dipende l’entrata in produzione della bovina;
- per quanto riguarda l’IPPS ottenuto dalle primipare di entrambe le razze invece, hanno proseguito gli esperti, il risultato della Bruna è stato significativamente minore rispetto alla Frisona (70,9±2,4 vs. 92,3±8,0 giorni). Per spiegare tale risultato, è necessario innanzitutto tenere in considerazione il cosiddetto “tempo di attesa volontario” o TAV (numero di giorni dopo il parto che il veterinario decide di attendere prima di iniziare a inseminare nuovamente la bovina). In genere tale periodo è compreso tra i 40-70 giorni, tempo necessario per ottenere una completa involuzione uterina, la ripresa dell’attività ovarica ed il raggiungimento del picco di lattazione. Il TAV può però essere incrementato nel momento in cui si è di fronte a casi di endometriti e metriti nel post-partum, patologie ovariche o altre problematiche sanitarie, oppure perché l’allevatore potrebbe scegliere di attendere un Body Condition Score migliore prima della inseminazione artificiale al fine di incrementare il tasso di concepimento ed evitare un picco precoce della progesteronemia che potrebbe inficiare la produzione;
- sempre per quanto riguarda le primipare, sia il tasso di fertilità medio, che il NISC hanno mostrato valori simili tra le due razze (TFM=68,5% per la Bruna vs 72% per la Frisona; NISC=2,77±0,17 per la Bruna vs 2,92±0,18 per la Frisona), sebbene le primipare di razza Bruna abbiano presentato un IIP tra la prima e la seconda lattazione leggermente inferiore (465,6±13,9 vs 502,4±18,2);
- per quanto riguarda le pluripare invece, il IPPS registrato per le due razze non ha mostrato alcuna differenza (69,5±3,3 giorni nella Bruna vs 68,3±1,8 giorni nella Frisona). “Ciò lascia intendere, hanno sottolineato Tuccillo e colleghi, che dopo il gap della prima lattazione, in cui come registrato in precedenza, la Frisona presenta un EMPP minore, il successivo comportamento delle due razze è pressoché sovrapponibile”;
- il tasso di fertilità medio (TFM) non ha mostrato differenze significative tra le due razze (60,2% nella Bruna vs 58,7% nella Frisona) così come l’analisi del TFM che nel corso dell’anno è risultata altresì simile (Figura 1);
- l’IPC, e di conseguenza l’IIP, hanno mostrato valori tendenzialmente minore per la razza Bruna rispetto alla Frisona (184,4±11,6 vs 214,7±13,0 giorni). (Tabella 1) anche il numero di IS/concepimento è stato tendenzialmente maggiore nella razza Frisona rispetto alla Bruna (2,94±0,18 vs 3,37±0,18);
- la vita media produttiva non ha differito in modo significativo tra le due razze; tuttavia si è registrato un valore lievemente superiore per i soggetti di razza Bruna (numero medio di lattazioni=2,4 vs 2,0);
- infine, è stata valutata anche la produzione (Figura 2), tenendo conto anche delle differenze di carattere genetico, oltre che dell’influenza dei fattori ambientali. Da quanto si può vedere nella figura 2 la produzione media registrata è stata di 8789 kg nella Frisona e 7247 kg nella Bruna. Considerando anche gli aspetti qualitativi (tenore in grasso e proteine del latte), le produzioni sono risultate 8261 e 7438 nella Frisona e nella Bruna, rispettivamente.
Le differenze tra le due razze
Con la ricerca effettuata, hanno concluso i relatori, si è dimostrato che “sia la Bruna che la Frisona allevate nelle medesime condizioni di alimentazione ed ambientali, presentano una discreta efficienza riproduttiva. In particolare, la Bruna ha presentato una minore produzione di latte in termini quantitativi, ma degli indici riproduttivi più favorevoli, quali un minor IPC ed un minor NISC.
La migliore qualità del latte potrebbe far propendere per questa razza nel momento in cui il latte fosse destinato alla caseificazione. Al contrario, la razza Frisona, si è dimostrata in grado quindi di ripagare i giorni di allungamento dell’IIP con la maggiore produzione di latte”.
Leggi l’articolo completo su Informatore Zootecnico n. 19/2015.
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