
L’allevamento per la produzione di carne bovina ha ancora un futuro in Italia? La domanda è più che legittima, alla luce di un calo progressivo del tasso di autoapprovvigionamento, che negli ultimi anni è sceso pericolosamente, fino ad arrivare oggi intorno al 43,7% (fonte: Teseo.clal.it, dato riferito a gennaio-dicembre 2024). Letto altrimenti, significa che oltre il 56% della carne consumata in Italia proviene dall’estero.
Il tema è stato al centro dell’assemblea del Consorzio lombardo produttori di carne bovina (Clpcb), che si è tenuta in occasione della 134ª edizione della fiera Lombardia Carne di Rovato (Brescia). Il Clpcb è una delle realtà più dinamiche a livello italiano e, carte alla mano, la prima realtà che nel lontano 1982, quando ancora si chiamava Consorzio carne bovina documentata (o, più sbrigativamente, Consorzio “Doc”), puntò alla tracciabilità volontaria per indicare l’origine della carne e tutti i passaggi dalla nascita alla macellazione.
La proposta, non nuova in verità, ma che sembra essere sempre più diffusa, è quella del “Beef on dairy”, vale a dire l’utilizzo di vacche da latte per incroci con tori da carne, così da rilanciare la produzione di vitelli da ingrasso a partire dalle stalle da latte e ottenere un duplice vantaggio: per chi vende i vitelli da carne si concretizza la possibilità di migliorare la redditività rispetto alla vendita dei baliotti; per chi ingrassa i capi si apre la possibilità di evitare l’acquisto di capi dalla Francia o dall’estero e prediligere una filiera interamente italiana del “nato, allevato e macellato in Italia”.
A tracciare il quadro di un progetto che vede il sostegno di Regione Lombardia, Associazione regionale allevatori della Lombardia, Anafibj, Coldiretti e Filiera Italia, Comal (Cooperativa mantovana tra allevatori) e Cobreca (Cooperativa bresciana bestiame e carni), e che dovrebbe trovare un prezioso alleato nel Consorzio di tutela del Grana Padano, è stato il presidente del Clpcb, Massimiliano Ruggenenti, nel corso dell’evento di Rovato.
Massimiliano Ruggenenti
“Partiamo da uno scenario che ci sta preoccupando per la complessità – ha dichiarato Ruggenenti -. I prezzi dei ristalli sono sempre più alti e i margini di guadagno per i produttori si stanno progressivamente assottigliando, nonostante i prezzi di mercato si collochino su valori elevati. La Francia, principale bacino di rifornimento dei broutard, ha incrementato la fase di ingrasso sul proprio territorio, riducendo così il numero di animali vivi per l’export. Inoltre, rispetto alla rotta verso l’Italia da diversi mesi gli allevatori francesi preferiscono esportare in Nord Africa dove la remunerazione è maggiore o verso la Spagna, dove i controlli sanitari obbligatori sono meno pressanti rispetto all’Italia”.
I dati elaborati da Teseo.Clal.it evidenziano che, nel corso del 2024, l’export di bovini vivi dalla Francia è leggermente diminuito (-3,21%) rispetto all’anno precedente. Anche la rotta verso l’Italia, che rappresenta il 79% del mercato francese dei bovini vivi, ha perso terreno: -3,94% tendenziale, mentre altre destinazioni come la Spagna (che rappresenta il 14% delle quote totali dell’export francese di bovini vivi) sono cresciute del 2,57 per cento.
E sarebbe proprio il rafforzamento dell’asse commerciale verso la Spagna per minori complicanze burocratiche e per la possibilità di spuntare prezzi di mercato migliori che avrebbe spinto i francesi ad orientarsi verso la Penisola Iberica (efficacissimo ponte verso il Nord Africa), preferendo appunto tale rotta rispetto a quella più tradizionale verso l’Italia. “Una situazione che rischia di compromettere ancora di più la già precaria situazione relativa all’autoapprovvigionamento di carne bovina per il nostro Paese”, ha puntualizzato Ruggenenti.
Da qui la volontà da parte del Consorzio Lombardo Produttori di Carne Bovina di scommettere sul potenziamento della filiera “Beef on Dairy”. “L’alleanza con gli allevamenti da latte – ha riassunto il presidente Ruggenenti – si propone di fecondare le vacche frisone con seme proveniente da razze da carne, utilizzando i semi sessati attualmente disponibili. In questo modo otterremo benefici per entrambe le categorie di allevatori. Da un lato, i produttori lattiero caseari possono pianificare meglio la rimonta della mandria, mentre gli ingrassatori di animali da carne potrebbero contare su un numero crescente di animali disponibili, nati in Italia”.
Essenziali alcuni requisiti come la facilità di parto, un accrescimento giornaliero soddisfacente per gli allevatori da carne e che garantisca una resa corretta alla macellazione. Tutti traguardi facilmente raggiungibili, operando anche attraverso la selezione di tori idonei.
Martino Cassandro
L’utilizzo di seme di tori da carne su vacche da latte non costituisce, come detto, di per sé una novità. “Nel 2023 sono state registrate oltre 2 milioni di inseminazioni su bovini di razza frisona italiana, di cui circa 430.000, pari a circa il 20%, relative a inseminazioni effettuate con l'utilizzo di seme di razze da carne” ha spiegato il professor Martino Cassandro, direttore generale di Anafibj e ordinario di Zootecnia generale e miglioramento genetico animale all’Università di Padova.
La tendenza, ha aggiunto Cassandro, “è di un incremento dell’1,6% all’anno, tanto che si attende nel 2030 che l’incidenza delle inseminazioni su bovine da latte con seme di razze da carne arrivi al 34 per cento. Una bovina da latte su tre”.
Una pratica piuttosto comune, quindi, anche a livello mondiale, che “può aiutare gli allevamenti a incrementare il proprio utile netto e ridurre l’impatto ambientale”, ha ricordato Cassandro.
Claudio Grazioli
Fra gli allevatori di bovine da latte che da anni hanno abbracciato il progetto legato allo svezzamento dei vitelli per la produzione di carne fino al peso di 70-80 chili c’è Claudio Grazioli, imprenditore zootecnico di Canneto sull’Oglio (Mantova).
Pioniere nell’automazione nel settore lattiero, primo in provincia di Mantova e quarto in Italia ad installare – 25 anni fa – il robot di mungitura, oggi Grazioli gestisce un’azienda di 85 ettari con 550 capi (250 dei quali in mungitura), insieme al fratello Alberto e al nipote Mauro Tenca, figlio della sorella Raffaella.
“Ogni anno possiamo contare su un bacino di circa 320 vitelli nati, dei quali circa 180 sono maschi, non destinati dunque al circuito del latte – spiega Grazioli -. Li alleviamo fino a un peso di 70-80 chilogrammi, per poi venderli alla Comal, la cooperativa mantovana fra allevatori che li ritira per la commercializzazione nelle stalle che ingrassano i tori”.
Ettore Prandini
Tra i vantaggi evidenziati dal progetto “Beef on dairy” c’è anche la possibilità di creare una linea di raccolta dati e di valutazione genomica sulla progenie. Inoltre, Anafibj sta sviluppando e renderà disponibile uno strumento di supporto decisionale per gli allevatori per l’utilizzo del “Beef on dairy” e la selezione in purezza.
Il progetto è sostenuto da Coldiretti e Filiera Italia. Per il presidente nazionale di Coldiretti, Ettore Prandini, “è fondamentale investire in 4-5 centri di svezzamento dei vitelli da carne e ottenere il sostegno delle filiere zootecniche, così da incrementare il tasso di autoapprovvigionamento”.
Luigi Scordamaglia
Per l’amministratore delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia, “il futuro della Francia è segnato, ci sarà un milione di vacche nutrici in meno e sarà sempre più difficile importare broutard per gli allevatori italiani. In un contesto simile è necessario puntare sulle filiere e il potenziamento dell’utilizzo di seme da carne su bovine da latte è una risposta utile”.
Due, secondo Scordamaglia, i fattori che hanno ridisegnato il comparto francese. “Un elemento indubbiamente di difficoltà va individuato nel contesto sociale del comparto – riconosce -. I giovani che vivono nella zona del Massiccio Centrale francese, quando si trovano un cinema a 60 chilometri di distanza, servizi scomodi, zone rurali dove per raggiungere i vicini devi percorrere centinaia di metri preferiscono fare altro e abbandonare l’allevamento”.
Un altro elemento di svolta che ha influito sulla zootecnia da carne francese è stata, ricorda Scordamaglia, “la scelta di ridurre le vendite dei broutard e di allevare direttamente i vitelli da carne, così da poter incrementare i margini di profitto. Un ragionamento di tipo economico che, però, ha impattato negativamente sul numero di capi venduti agli allevatori italiani, chiamati a rafforzare le proprie filiere interne”.
Renato Zaghini
Dunque la linea beef on dairy non può essere rinviata ulteriormente; e qualche allevatore di vacche da latte l’ha già messo in pratica.
Sul percorso di collaborazione fra allevatori da latte e ingrassatori di capi da carne si è detto disponibile a definire politiche, strategie e interventi anche Renato Zaghini, presidente del Consorzio di tutela del Grana Padano, la più grande Dop a livello mondiale per produzione ed export e che potrebbe agevolare lo sviluppo del “Beef on dairy” come elemento per migliorare la sostenibilità degli allevamenti dal punto di vista economico, ambientale e sociale.
La stessa Regione Lombardia, con l’assessore all’Agricoltura Alessandro Beduschi, ha annunciato la volontà di sostenere attraverso misure finanziarie finalizzate alla realizzazione di infrastrutture e centri all’avanguardia per lo svezzamento dei vitelli, così da incrementare i livelli di autosufficienza e di ridare prospettive agli alpeggi e alle zone montane e collinari.
Alessandro Beduschi: rigenerare una filiera, restituire valore all’italianità della carne
(di Alessandro Beduschi - Assessore all’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste di Regione Lombardia)
L’idea di alcuni ambienti del mondo zootecnico italiano di dedicarsi alla pratica del Beef on dairy, idea che nel caso del Consorzio Lombardo Produttori Carne sta assumendo i contorni di un progetto strutturato, nasce da una constatazione tanto semplice quanto drammatica: oggi in Italia oltre il 60% della carne bovina viene importata, e gran parte di ciò che ancora alleviamo nel nostro Paese proviene da vitelli acquistati all’estero, soprattutto in Francia.
Ma questa dipendenza è diventata insostenibile, tanto sul piano economico quanto su quello strategico. Per questo motivo, Regione Lombardia ha deciso di sostenere un percorso che punta alla rigenerazione della filiera da carne attraverso l’integrazione sistematica con il comparto lattiero-caseario.
La zootecnia lombarda è fortemente radicata nella produzione di latte, ma presenta un potenziale inespresso nella valorizzazione delle produzioni secondarie. Il Beef on dairy nasce proprio per sfruttare questo potenziale, trasformandolo in una leva strutturale per aumentare l’autosufficienza nazionale di carne bovina. Come? Attraverso un uso razionale e programmato della genetica animale, capace di ottimizzare il valore economico e zootecnico di ogni fecondazione. Un’intuizione portata mirabilmente avanti dagli amici del Consorzio Lombardo Produttori Carne, che appoggiamo con tutti i nostri strumenti politici e amministrativi.
La ricerca ci dice che sarebbe condizione ideale e auspicabile se circa il 70% delle vacche presenti in una normale stalla da latte venisse fecondato con seme sessato da toro da latte per aumentare la rimonta e migliorare i caratteri produttivi. Il restante, ipotetico, 30% – quello con un corredo genetico meno interessante per la prosecuzione della linea da latte – potrebbe invece diventare una risorsa preziosa se fecondato con toro da carne.
Questa pratica, già in uso, può però diventare un pilastro strutturale della nuova integrazione di filiera: un approccio scientifico, sistematico e programmato, che trasformi l’attuale occasionalità in progettualità economica.
Il risultato? Un flusso costante e programmabile di vitelli da carne nati in Italia, con garanzie sanitarie, tracciabilità certa e capacità di ridurre progressivamente il fabbisogno di ristalli esteri. Non si tratta solo di aumentare l’autonomia zootecnica del nostro Paese, ma anche di valorizzare la carne “nostra”, riportando centralità all’origine, alla qualità e al lavoro dei nostri allevatori.
Ma i vantaggi di questo modello non si fermano qui. Beef on Dairy può anche rilanciare ambiti di ricerca genetica finora marginali: la selezione di tori da carne adatti specificamente all’incrocio con vacche da latte è ancora in una fase embrionale rispetto all’enorme sviluppo della genetica da latte.
In passato, la scelta dei tori da carne per l’incrocio è stata dettata quasi unicamente dal prezzo: si usano seme di razze come il Blue Belga, economicamente accessibili e performanti in termini di accrescimento, ma con pochissima attenzione agli altri aspetti. Questo progetto apre la strada alla ricerca di riproduttori maschili con caratteristiche migliori per l’adattamento a vacche da latte, con vantaggi per benessere animale, qualità delle carcasse e resa zootecnica.
C’è poi un ulteriore elemento che rende il modello lombardo particolarmente adatto a questa trasformazione: il nostro tessuto produttivo è ancora fatto, in larga parte, da allevatori che possiedono direttamente le proprie strutture di ingrasso. Un modello che preserva un’autonomia imprenditoriale concreta, anche se economicamente più fragile rispetto alle grandi organizzazioni in soccida, che dominano altre regioni.
La filiera lombarda è fatta da allevatori che quotidianamente rischiano in prima persona e che ogni sei mesi si trovano ad anticipare decine di migliaia di euro per acquistare ristalli. Offrire loro una prospettiva di approvvigionamento interno, prevedibile e programmabile, significa rafforzarne la stabilità e la capacità di continuare ad esistere.
Regione Lombardia crede fermamente nella necessità di tutelare questa peculiarità, perché rappresenta una ricchezza non solo economica, ma culturale e territoriale. È un modello che vogliamo difendere, non per nostalgia ma perché crediamo che abbia ancora molto da dare all’agricoltura italiana.
Ecco allora che Beef on Dairy non è solo un progetto zootecnico: è un’idea di futuro. Un futuro dove latte e carne non sono comparti concorrenti, ma alleati; dove la genetica non è una tecnica fredda, ma uno strumento di sostenibilità economica e ambientale; dove gli allevatori non sono anelli deboli della filiera, ma soggetti protagonisti.
Siamo solo all’inizio, ma la direzione è tracciata. La Lombardia c’è: con la sua visione, la sua ricerca, il suo capitale umano. E con la sua volontà di mettere fine a una dipendenza che ci è costata troppo, troppo a lungo.