La causa in discussione in queste settimane presso la Corte di giustizia europea, e che vede opporsi il nostro Paese alla Commissione Ue per una proroga concessa anni fa sul pagamento delle multe sulle quote latte, è l’amaro frutto giudiziario di una vicenda complessa con radici nel passato.
Le quote latte Ue non esistono più da quasi due anni, ma ancora per molto tempo la questione delle multe pregresse, con il suo carico di sanzioni miliardarie, penderà come la più classica spada di Damocle sul settore lattiero italiano.
La rateizzazione
La vicenda parte nel 2013, quando la Commissione Ue pose lo stigma di irregolarità alla proroga di sei mesi (da dicembre 2010 a giugno 2011) della settima rata di pagamento delle multe sulle quote latte; sottolineiamo che qui parliamo della rateizzazione stabilita con la legge 119 del 2003.
Per evitare equivoci precisiamo che oggi in Italia sono attive, oltre a questa, altre due forme di pagamento rateale delle multe sulle quote latte: quella istituita con la legge 33 del 2009 e quella voluta dall’Ue nel 2015, che però non riguardano la questione di cui qui ci occupiamo.
Nel 2003 si era deciso di tentare di porre termine all’annosa questione delle multe pregresse. Si trattava delle sanzioni accumulate da migliaia di aziende da latte tra le campagne 1995/96 e 2001/02. Ormai, per varie ragioni, era chiaro che gli allevatori splafonatori dovevano pagare, non poteva più intervenire lo Stato; toccava semmai al governo di allora trovare il sistema per loro meno doloroso possibile.
Fu così negoziata con Bruxelles, non senza difficoltà, una rateizzazione dell’importo da pagare in 14 annualità senza interessi. Vennero fatti i calcoli e notificato a ogni allevatore quanto doveva versare. Per il “quando” si stabilì la fine di ogni anno quale scadenza della rata, a partire dal 31 dicembre 2014. Tutto filò liscio per le prime 6 annualità, tra il 2004 e il 2009: gli allevatori ricevevano per tempo il bollettino di pagamento mav e onoravano la rata.
Il meccanismo si inceppa: scatta la proroga
Il meccanismo si inceppa nel 2010. La crisi del prezzo del latte, partita nel 2009, si fa sentire e, tra le altre cose, il governo italiano pensa di alleggerire il peso sugli allevatori spostando nel tempo l’obbligo di pagamento della settima rata e lasciando così preziosa liquidità nelle casse delle stalle.
E questa proroga al 30 giugno 2011, al posto della scadenza naturale del 31 dicembre 2010, arriva con il “Decreto Milleproroghe” convertito in legge a fine febbraio 2011. Non è un refuso: la proroga della scadenza del 31 dicembre 2010 arriva per decreto il 29 dicembre 2010 e viene confermata per legge a fine febbraio 2011, quando tra l’altro una buona parte degli allevatori, strattonati tra il rincorrersi delle voci e l’italica incertezza normativa, quella rata l’aveva già pagata.
Ma la Commissione Ue non ci sta
In ogni caso, questo spostamento dei termini fu deciso dal nostro governo senza concordare nulla con l’Unione europea: ecco il vulnus di tutta la faccenda. Perché bisogna aggiungere che in qualsiasi rateizzazione uno spostamento dei termini ha un costo finanziario, che, nel caso specifico, si è accollato lo Stato italiano a favore dei produttori di latte.
Questo ulteriore intervento è finito nel mirino della Commissione Ue, che nei mesi successivi indaga e non ci sta. Tanto che, dopo aver scritto al nostro governo per avere delucidazioni, che evidentemente ha reputato insufficienti, il 17 luglio 2013 emette la Decisione 665 (atto formale dell’Esecutivo Ue) con cui dichiara l’incompatibilità della decisione italiana rispetto alla normativa europea.
In quel documento si legge: «La Commissione constata che l’Italia ha illegittimamente dato esecuzione alla proroga di pagamento in questione, rendendo illegittimo anche l’aiuto ad essa connesso». E ancora: «La proroga di pagamento della rata dei prelievi sul latte in scadenza il 31 dicembre 2010… costituisce un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno».
In una fase come l’attuale nella quale l’antieuropeismo è di moda, e senza parteggiare per nessuna posizione, si deve aggiungere che la Commissione ha agito sulla scorta di regole che possono essere interpretate saggiamente e applicate con discernimento, ma non possono essere eluse. Per il fatto che un paese appartiene all’Ue, partecipa ai molti vantaggi del mercato unico europeo.
In un mercato unico, però, è chiaro se se un governo avvantaggia alcuni suoi produttori di un qualsiasi settore, è come se automaticamente recasse svantaggio alla stessa categoria di produttori di tutti gli altri paesi. Il che, in linea di principio, è evidentemente inammissibile.
E l’Italia fa ricorso al Tribunale dell’Unione europea
Appunto in linea di principio, ma nel caso specifico, la proroga alla settima rata sulle multe sulle quote latte, ha violato o meno i cardini del mercato unico? Secondo la Commissione, istituzionalmente preposta a difesa dell’ordinamento comunitario, sì; e per questo ha ritenuto di muoversi. Secondo l’Italia invece no, per questo si è subito difesa impugnando la decisione della Commissione davanti al Tribunale dell’Unione europea.
A tutta prima le ragioni addotte dal nostro Paese confermano in qualche modo le accuse della Commissione, perché ammettono che la proroga dei termini è stata un aiuto di Stato. Ma spiegano anche che questo aiuto deve essere fatto rientrare nel regime de minimis che consente deroga alle regole Ue per aiuti di Stato di importo contenuto. Una tesi importante, anche considerando la poca consistenza del vantaggio finanziario ottenuto da molte aziende da latte attraverso questa proroga dei termini, come dettagliamo nel box di pag.6.
Risposta positiva dal Tribunale
Nel giugno 2015 il Tribunale dell’Ue si pronuncia a favore del nostro Paese. Nello specifico viene messo nero su bianco che “Il Tribunale annulla l’articolo 1, paragrafo 2, della decisione 2013/665/Ue (dichiarazione di incompatibilità) e gli articoli da 2 a 4 (obbligo di rimborso) nella parte in cui riguardano il regime di aiuti e gli aiuti individuali concessi ai produttori che hanno usufruito della proroga”.
In pratica, secondo il Tribunale, un mutamento in una minima condizione dell’intesa originaria sulla rateizzazione non deve inficiare l’intero accordo. Insomma, l’Italia poteva spostare la rateizzazione e accollarsi i (pochi) oneri del caso senza mettere a repentaglio il rispetto del mercato unico.
L’appello della Commissione
Il pronunciamento del Tribunale europeo poteva essere la fine della querelle, ma non l’ha pensata così la Commissione che l’ha impugnata davanti alla Corte di Giustizia europea, la seconda istanza giurisdizionale dell’Ue. Ribadendo ovviamente le sue motivazioni e bollando come “illegittima”, la lettura delle norme europee fatta dal Tribunale.
Così ora la palla è alla Corte di Giustizia europea che, nell’esame della questione, sta seguendo il suo iter procedurale. Iter che nelle scorse settimane ha compiuto un passo importante con la deposizione del “parere” da parte dell’avvocato generale della Corte che segue il caso. Ed è un parere contrario alle ragioni del nostro Paese. Scrive infatti l’avvocato che “L’Italia deve procedere al recupero integrale delle somme concesse ai produttori di latte che nel 2010-2011 hanno usufruito della proroga di pagamento delle multe, unitamente agli interessi”.
Se la Corte lo farà suo sarà un ulteriore ribaltamento della vicenda. Da un punto di vista istituzionale, il parere dell’avvocato generale non è vincolante per il collegio giudicante, ma bisogna tenere presente che spesso, in passato, è stato determinante per orientare la decisione dei giudici europei.
Leggi l’articolo su Informatore Zootecnico n. 3/2017
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