Dopo la crescita indiscriminata dei primi anni e la focalizzazione sulle nicchie (vedi le installazioni sotto 50 kW) dell'ultimo periodo, il mercato del biogas entra in una nuova fase: quella degli interventi migliorativi sugli impianti esistenti. L'evoluzione ha seguito senza dubbio una logica: prima la corsa agli impianti più redditizi – i più grandi, appunto – poi, esaurita la spinta su questi ultimi, si è passati a occupare i settori marginali, grazie anche al nuovo regime dei finanziamenti pubblici, che come noto privilegia i piccoli impianti con scarso impiego di biomasse dedicate.
Nel frattempo, tuttavia, i costruttori si sono resi conto di un'altra esigenza in fase di costituzione: la messa in efficienza dell'esistente. I primi digestori hanno ormai oltre dieci anni e sono stati realizzati, appunto, in piena fase esplosiva, quando l'entusiasmo era tanto e le competenze – perlomeno qui in Italia – un po' incerte. Accade così che vi siano diverse installazioni realizzate con tecnologie diventate obsolete, o secondo schemi progettuali che si sono rivelati, con gli anni, deboli in alcuni punti.
Pertanto, pur funzionando discretamente, questi siti non rendono quanto dovrebbero, comportando perdite consistenti per i proprietari, tra mancati incentivi e minor vendita di energia. Il tutto a fronte di spese che, invece, sono pari a quelle che si avrebbero con l'impianto funzionante a pieno regime.
Che fare, allora, con questi biodigestori? Non val certo la pena chiuderli, chiaramente. È invece possibile – perlomeno molti costruttori lo assicurano – migliorarne l'efficienza, portandola, se non proprio al massimo, quantomeno vicina a quella ottimale.
L'argomento è interessante, perché promette di incrementare i guadagni e soprattutto di far rientrare in tempi rapidi dall'investimento effettuato. Ed è soprattutto allettante per gli allevatori perché, spesso, consente di ovviare ad alcune inefficienze che sono strettamente collegate all'impiego di reflui zootecnici nel biodigestore, come fanno notare gli allevatori stessi.
Attenzione al letame
Gli impianti di biogas costruiti in appoggio a un allevamento si stanno sempre più diffondendo. Mentre i primi casi di questo tipo sfruttavano soltanto in minima parte gli effluenti, le nuove realizzazioni hanno i reflui come combustibile principale, se non unico; anche per una questione di incentivi, come noto.
Tuttavia, come dimostra l'esperienza sul campo, l'impiego di effluenti in misura massiccia può creare problemi di efficienza dell'impianto, se non si sta attenti a calibrare bene le proporzioni tra i vari co-fermenti. Inoltre, l'uso di letame bovino pone alcune difficoltà, legate sia alla natura poco controllabile del medesimo – vi è una estrema variabilità nei componenti, nella percentuale di acqua e via dicendo – sia alla presenza immancabile di corpi estranei come sassi, reti di rotoballe, spaghi delle medesime e altri oggetti che, finendo nel digestore, possono creare grossi problemi.
Alcuni gestori poco attenti, ci dicono i costruttori di impianti, sono stati costretti a vuotare la vasca per rimuovere uno spesso strato di sassi dal fondo del medesimo, oppure spaghi e corde intrecciati sugli agitatori.
Un altro elemento critico è rappresentato da biomasse a fibra lunga, che come vedremo più sotto, presentano maggiori difficoltà di assimilazione. Un caso tipico è la paglia del letame, tanto è vero che parecchi allevatori, per loro stessa ammissione, dopo aver realizzato l'impianto di biogas sono passati dalla tradizionale paglia lunga alla versione tritata proprio per evitare un rallentamento della digestione anaerobica.
In questi casi, sostengono le ditte specializzate, la soluzione può venire da un trituratore, cui quasi sempre si associa un separatore di corpi estranei, in grado di isolare sassi, parti metalliche e altri oggetti che potrebbero, peraltro, danneggiare la pompa idraulica.
Sfruttando l'occasione di Fieragricola, in particolare del padiglione dedicato alle energie rinnovabili, abbiamo visto cosa propone l'industria per migliorare le prestazioni di un biodigestore un po' in affanno.
Più gas, meno consumi
Le strade per aumentare la redditività dei vecchi impianti sono due: aumentare la resa, portandola il più possibile vicino al massimo teorico, oppure ridurre l'autoconsumo. Quest'ultimo, in apparenza, rappresenta un problema secondario, ma se parliamo di impianti con contributo statale di 28 centesimi al kilowatt, basta fare due conti per capire che risparmiare qualche migliaio di kW/h significa mettersi in tasca una discreta somma.
Le soluzioni proposte dalle ditte che si stanno specializzando in questo particolare tipo di servizio post-vendita sono di due tipi: meccaniche e biologiche. Vediamole nei particolari.
Migliorare il substrato
Il biodigestore è in pratica un grande rumine. Funziona bene se è alimentato con materie prime nutrienti e se queste ultime entrano nel fermentatore nelle migliori condizioni possibili per essere digerite.
Un'alimentazione con substrato in pezzi grossolani, oppure composto da ingredienti vari non amalgamati, o ancora troppo freddo o troppo secco, rischia di rallentare il processo di digestione anaerobica, aumentando il tempo di ritenzione (ovvero i giorni di permanenza del materiale nella vasca principale) e riducendo la resa in biogas. Vale a dire che una tonnellata di substrato resterà più a lungo nel digestore e fornirà meno biogas di quanto potrebbe dare in linea teorica.
In questi casi il problema è di tipo fisico e riguarda le condizioni del materiale che si introduce. È possibile migliorarle con trituratori o miscelatori: dispositivi da collocare tra il serbatoio di alimentazione (o il carro miscelatore, a seconda della soluzione scelta nella fattispecie) e il digestore.
Il trituratore riceve il substrato e lo sminuzza, riducendolo a una poltiglia omogenea. Il miscelatore, invece, mescola la frazione solida con quella liquida, che può essere costituita dai liquami oppure dal digestato proveniente dall'impianto stesso. Le ultime tendenze, infatti, dimostrano che un substrato liquido o semiliquido è di più facile digestione rispetto all'introduzione di palate di biomassa semi-asciutta. Comunque sia, miscelando bene frazione solida e liquida si ottiene una sospensione fluida e ben amalgamata che entra nel digestore nelle migliori condizioni per essere assimilata dai batteri anaerobi.
Questi ultimi, infatti, attaccano le particole di nutriente aggredendo e scindendo le pareti cellulari; la loro azione è dunque tanto più efficace quanto più è elevata la superficie di contatto tra i batteri stessi e il nutrimento.
Triturando per bene quest'ultimo, sostengono i costruttori, si aumenta la superficie suddetta e in buona sostanza si rende il substrato più facilmente digeribile. Pertanto una maggior percentuale di materia prima sarà trasformata in gas e, inoltre, il processo avverrà in tempi più brevi, permettendo così l'introduzione di nuovo substrato e la produzione di altro gas.
Triturazione e amalgamazione sono utili anche per ridurre i costi energetici: una sospensione semiliquida e omogenea scorre infatti meglio, richiede meno energia alle pompe e meno funzionamento dei miscelatori interni al digestore. È anche più difficile che si formi il cappello, vale a dire un agglomerato solido che ostacola l'azione degli agitatori e rallenta il processo di digestione.
Trituratori e sfibratori meccanici, tuttavia, non possono andare più in là di tanto, con lo sminuzzamento. Per scindere anche le parti sotto il cm di dimensione, pertanto, sono state messe a punto soluzioni che esulano dalla meccanica: gli ultrasuoni, per esempio, oppure la frammentazione elettrocinetica, basata su elettrodi che emettono impulsi elettrici all'interno delle tubazioni in cui scorre la sospensione.
Ottimizzare la ricetta
Una seconda possibilità per rendere più efficiente l'impianto passa dalla biologia. Come noto, perché il digestore funzioni bene è necessario che sia rispettato un preciso equilibrio in termini di alimentazione dei batteri e qualità della medesima, temperatura del substrato, assenza di ossigeno, pH e altri parametri. Fattori che non sempre sono facili da controllare in una vasca in cui si riversano biomasse ma anche prodotti di scarto ed effluenti.
Per questo motivo, qualche ditta sta proponendo una sorta di “ottimizzazione biologica” del digestore. Vale a dire che i tecnici, dopo una visita all'installazione e il controllo dei parametri di funzionamento, suggeriscono come correggere la ricetta in modo da rendere più efficiente il processo digestivo e dunque, ancora una volta, migliorare la produzione di metano.
L’esperienza di tre allevatori
Dal letame con paglia lunga alla presenza di sassi, fino alla difficoltà di miscelazione tra la componente liquida e quella solida, soprattutto se quest'ultima comprende abbondanti dosi di insilati. Sono tante le cause che possono ridurre l'efficienza di un biodigestore e di conseguenza i guadagni del suo proprietario. Alcune di esse, poi, sono tipiche dell'impiego di reflui zootecnici, bovini in particolare.
Per questo abbiamo chiesto a tre a allevatori, di tre regioni diverse, in che modo cercano di ottimizzare l'efficienza dei propri impianti e quali carenze riscontrano più frequentemente nei medesimi.
Romani
Iniziamo con Paolo Romani, di Borgoforte (Mn), proprietario di una stalla da mille capi con 400 vacche in lattazione. Le deiezioni, assieme a quelle di un allevamento di suini sempre di proprietà della famiglia Romani, finiscono in un digestore da 1 megawatt installato da Eliopig, alimentato esclusivamente con materiali di scarto e che cerca di sfruttare al massimo il gas prodotto. Con il calore dei motori, per esempio, riscalda un impianto di strippaggio dell'ammoniaca che combina il digestato liquido con acido solforico per produrre solfato di ammonio e risolvere così il problema dei nitrati.
Parliamo però di ottimizzazione del processo: come riescono, i Romani, a far rendere al meglio il loro digestore? A che cosa prestano attenzione?
«Un aspetto importante è quello del letame: se non è ben sminuzzato, fatica a essere attaccato dai batteri. Funziona un po' alla rovescia del rumine: lì per avere un'azione meccanica occorre materiale a fibra lunga, in questo caso, invece, dev'essere il più possibile corta. È anche importante preparare una razione equilibrata: il letame solido può essere mescolato a prodotti di scarto di vario tipo, purché tutti i componenti siano freschi. Per esempio, sia i liquami sia il letame non possono restare molto nelle vasche di deposito, altrimenti iniziano in quella sede il processo di fermentazione e si perde una parte di gas. Nella nostra azienda abbiamo realizzato un sistema di canalizzazioni che invia il liquame al digestore ogni giorno. Tanto è vero che le vasche di stoccaggio sono ormai usate per il digestato. Per il letame abbiamo tempi un po' più lunghi: abbiamo lettiere permanenti, ma cerchiamo di pulirle ogni due settimane al massimo».
Inoltre, componente solida e liquida devono essere mescolati. «Per questo motivo cerchiamo di non usare paglia lunga o comunque prodotti grossolani. Liquido e solido sono mescolati e omogeneizzati e poi inviati, con le pompe, al digestore». I Romani, per evitare intoppi, hanno eliminato la paglia lunga dalla loro stalla. «Reperire quella tritata molto fine è difficile, comunque, se è medio-corta, va bene, perché poi il lanciapaglia la sfibra ulteriormente».
Massima attenzione è riservata a evitare la contaminazione con corpi estranei. «Stiamo attenti sia alla terra, che ovviamente riduce la produzione, sia a veri killer come sassi, spaghi oppure copertura in plastica delle rotoballe, materiali pericolosissimi per le pompe e che formano un residuo sul fondo delle vasche. Una vera e propria zavorra che prima o poi dev'essere rimossa».
Piccoli stratagemmi che i Romani hanno imparato con l'esperienza diretta. «All'inizio abbiamo fatto i nostri errori, poi con il tempo abbiamo capito le cose da non fare. Rete dei balloni, spaghi e corde danno grossissimi problemi, per cui consigliamo di prestare loro la massima attenzione e raccoglierli con cura».
Cazzola
Damiano Cazzola, di Salizzole (Vr) possiede due impianti, alimentati principalmente con reflui. «In ciascuno immettiamo circa 13 tonnellate di letame e 30 metri cubi di liquame al giorno, più una parte di silomais oppure, nel periodo primaverile ed estivo, trinciati verdi di loiessa, triticale e frumento», ci spiega. Naturalmente la sua stalla da 160 capi in lattazione non produce una simile quantità di deiezioni: Cazzola, infatti, ritira letame e liquami anche da un vicino allevamento di bovini da carne.
Torniamo però agli impianti e al loro funzionamento. Il primo dei due, vecchio di cinque anni, è organizzato in quattro vasche da 20 metri cubi, mentre per il secondo Cazzola, consigliato dai tecnici della Bts, l'azienda che ha realizzato il progetto, ha scelto una strada diversa: «Abbiamo fatto una vasca da 10 metri cubi per l'idrolisi, una da 26 per la fermentazione principale e un post-digestore da 22 metri cubi. La miscelazione dei diversi prodotti – reflui e biomasse è fatta in una tramoggia, ma prima che la miscela giunga all'idrolisi passa in un estrusore che macina le fibre vegetali e omogeneizza tutti gli ingredienti».
Secondo Cazzola, l'estrusore è appunto ciò che fa la differenza tra il primo e il secondo impianto. «Da quel che ho visto nel primo anno di attività, a parità di razione il sistema con l'estrusore ha una maggior efficienza in biogas e in più riduce di un paio di settimane i tempi di ritenzione. Inoltre ha un minor autoconsumo; di conseguenza, ci resta più energia da vendere». La differenza, aggiunge l'allevatore, è nell'ordine dell'uno e mezzo per cento. «L'estrusore sminuzza il vari prodotti, migliora la miscelazione, rende il tutto più facilmente assimilabile e quindi incrementa la produzione del biogas», ci spiega Cazzola. Che, in virtù di questi risultati, ha preso in considerazione anche l'idea di modificare il primo impianto. «Se non lo faremo, sarà soltanto per questioni di costo», conclude.
Pedrotti
Concludiamo questa veloce panoramica con Lorenzo Pedrotti, allevatore di Villatella (Re). Titolare della società agricola omonima, Pedrotti è proprietario di una stalla di taglio europeo: 1.800 capi, di cui 800 in lattazione. A servizio di questa importante struttura, quattro anni fa è stato realizzato un impianto di biogas da 330 kW, alimentato esclusivamene con i reflui aziendali. «Ogni giorno carichiamo 300 quintali di letame e reflui, 150 al mattino e altrettanti alla sera. Le deiezioni arrivano, in automatico o trasportate da un dumper, a un carro unifeed che funziona da tramoggia per la miscelazione dei liquami con il letame. Il materiale passa poi in un trituratore che riduce paglia e altre fibre vegetali alla lunghezza massima di 1,5 centimetri; dopodiché finisce tutto nel digestore», ci spiega il proprietario.
L'impianto – precisa Pedrotti – pur lavorando bene non è al massimo delle potenzialità. «Ne siamo contenti, ma c'è spazio per un piccolo miglioramento. In inverno e primavera, infatti, arriviamo a 330 kW di energia prodotta, mentre in estate ci fermiamo a 315 kW circa, principalmente per una questione di lettiere e anche di temperatura del digestore, che nelle giornate più calde rischia di salire oltre i limiti.
Nel complesso, abbiamo una media annuale di 320 kW o poco più. Se ci fosse la possibilità di recuperare anche quei 10 kilowatt che mancano all'appello, sarebbe il massimo».
Per questo motivo Pedrotti si è rivolto a Vogelsang, che già aveva fornito il trituratore, per una consulenza. «Mi hanno consigliato di installare un loro dispositivo per la frammentazione elettrocinetica tra i due digestori. In pratica dovremmo far girare la sospensione tra un digestore e l'altro facendola passare in una conduttura dove scariche elettriche scindono le molecole. Questo dovrebbe favorire la produzione di biogas e permetterci di recuperare i 10 kW mancanti. Stiamo valutando il piano e se ci sembrerà fattibile, lo metteremo in pratica, perché è un peccato non far produrre all'impianto tutto quel che potrebbe dare».
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