Nuove tipologie di costi a carico dell’allevamento

costi
Dagli adeguamenti di strutture e impianti per il benessere animale alle spese di formazione del personale. Ce ne parla il dirigente cooperativo Giovanni Guarneri

Va bene, il prezzo del latte alla stalla è molto cresciuto. Ma è aumentata anche la necessità di coprire i costi di conduzione dell’allevamento. In particolare sono insorte inedite voci di costo da inserire nel capitolo costi fissi, per affrontare le quali servono investimenti strutturali ma anche formazione del personale. Lo sottolinea in questo intervento per IZ, entrando a fondo nei dettagli, Giovanni Guarneri, presidente del comitato Latte Fedagri Confcooperative.

Giovanni Guarneri

Presidente Guarneri, attraversiamo un periodo in cui gli allevatori, i produttori di latte, ottengono margini aziendali particolarmente elevati. Sicuramente il prezzo del latte ha raggiunto livelli record.
Certo, però dobbiamo distinguere tra margine netto e margine lordo.
Cosa significa?
Noi possiamo indubbiamente affermare che il prezzo del latte alla stalla in Italia, e anche in Europa, ha raggiunto livelli elevati, sia per valore assoluto sia se guardiamo alla serie storica. Però, se facciamo un’analisi dei costi, dobbiamo considerare che nella zootecnia da latte italiana i costi variabili sono sotto controllo, i costi fissi meno.
I costi variabili sono sotto controllo.
Sì, sono abbastanza contenuti per effetto di un valore sotto controllo dei foraggi, delle materie prime per l’alimentazione animale e dei fattori della produzione agricola come i fertilizzanti e gli altri mezzi tecnici per la coltivazione dei terreni. Quindi il margine lordo è un margine elevato. D’altra parte i costi fissi, quelli che gli allevamenti devono coprire attraverso lo stesso margine lordo, rispetto al passato sono molto più elevati.
Per esempio quali sono questi costi fissi?
I costi fissi a cui va incontro un allevamento, quei costi che vanno coperti con il margine lordo, sono i costi collegati ai servizi, i costi collegati agli investimenti strutturali, sono i costi collegati alla gestione del personale, della manodopera, i costi di carattere amministrativo e burocratico. Quindi se in passato questa parte del bilancio aziendale aveva un valore abbastanza contenuto, oggi per una serie di ragioni che magari approfondiremo è cresciuta molto. Questo non significa che l’attività di produzione del latte, con gli attuali prezzi, non sia profittevole, però bisogna tener conto anche di questa componente del capitolo costi.
Come mai questi costi fissi sono più alti che in passato?
I costi legati agli investimenti e alle strutture sono più elevati per almeno due ragioni. La prima è il fatto che la realizzazione delle stalle, delle opere e degli impianti fissi comporta spese che sono cresciute molto per effetto dell’andamento degli oneri per costruzione, realizzazione delle opere, acquisto e installazione degli impianti. La seconda ragione è legata al benessere animale.
Al benessere animale?
La ricerca del benessere animale rende indispensabile un certo adeguamento delle strutture e degli impianti. È necessario avere più spazi, più metri quadrati a disposizione degli animali. Spazi fra l’altro con caratteristiche di assoluto livello, dotati quindi di strumenti di ventilazione, dotati di illuminazione, dotati di un più ampio fronte alla rastrelliera, dotati di accesso all’acqua di abbeverata. Spazi che per essere realizzati implicano un maggiore sforzo economico.
Citavamo anche i costi fissi relativi ai servizi.
Per quanto riguarda i servizi mi riferisco agli adempimenti di carattere tecnico e amministrativo che le stalle sono chiamate ad assolvere, qualunque sia la loro dimensione, per poter avere le qualifiche per lavorare sul mercato. Mi riferisco per esempio agli adempimenti collegati alla gestione amministrativa, come aspetti collegati alla fatturazione elettronica, collegati alla gestione degli adempimenti burocratici per la messa a punto della Pac… Si tratta di procedure che hanno elementi dalla complessità sempre maggiore; per di più specifici per il settore zootecnico.
Per esempio?
Be’, consideriamo tutta la parte digitale collegata alla gestione del farmaco e poi alla gestione del benessere animale. C’è un grosso impegno collegato alla registrazione di tutte le attività di carattere sanitario che sono fatte in allevamento, aspetto che ha bisogno di personale qualificato, di una piattaforma dedicata e che ha bisogno di un lavoro costante di controllo di quello che si fa nell’allevamento. Voglio ricordare che è necessario che gli allevamenti si dotino di procedure interne per la gestione di qualsia- si cosa che accade nell’allevamento.
E dotarsi di una procedura interna…
Significa avere dei consulenti preparati, avere del personale che dedica parte del proprio tempo non all’esecuzione pratica delle attività ma alla rendicontazione di quello che fa. E questo genera dei costi impliciti che diventano un prerequisito, sono costi imprescindibili o lo diventeranno. Oggi poi siamo di fronte all’entrata in vigore dell’Sqnba, un sistema che comporta un carico burocratico significativo, che implica la realizzazione di corsi di formazione per gli addetti, preparazione del personale... Sono attività necessarie per garantire il giusto livello di benessere animale, che però presentano dei costi impliciti che non finiscono nel costo della razione, che non finiscono nel costo della coltivazione di un appezzamento.
Diceva che anche il costo della manodopera è aumentato.
Esatto, il costo del personale cresce perché fisiologicamente cresce il costo della manodopera in tutti i settori. Veniamo da una fase di costi della manodopera stabili, che però adesso hanno iniziato a crescere perché è inevitabile che per effetto dell’inflazione anche i salari debbano giustamente e ragionevolmente aumentare. Poi per le ragioni dette prima c’è bisogno anche di un numero di ore maggiore, perché il personale oltre a svolgere le funzioni tradizionali deve anche svolgere nuove funzioni collegate alla gestione e alla rendicontazione di quello che si fa in allevamento, collegate alla volontà di garantire elevati livelli di benessere animale. La normativa stessa prevede che ci sia un numero minimo di accessi durante la giornata, un numero minimo di persone per numero di capi.
Nonostante l’automazione, nonostante il controllo digitale degli animali, nonostante l’evoluzione tecnologica….
Sì, nonostante tutto questo la gestione dell’allevamento prevede comunque, inevitabilmente, un carico di personale significativo. C’è un’altra variabile che secondo me va considerata e che non fa parte dei costi fissi ma fa parte della gestione dei rischi d’impresa ed è quella del cambiamento climatico.
Perché?
Perchè comporta una forte variabilità della produzione di alimenti zootecnici da parte degli appezzamenti agricoli dell’azienda. In zootecnia la componente agronomica è molto importante: ci vuole un equilibrio tra la dimensione dell’allevamento e quella dei terreni agricoli a disposizione. Ma a causa dell’elevata variabilità climatica le produzioni in campo possono far registrare da un anno all’altro oscillazioni molto elevate, quindi i costi di produzione collegati alla frazione di foraggi e materie prime autoprodotti in azienda cambiano molto.
Un tipo di costo fra l’altro di difficile quantificazione.
È molto difficile misurarlo attraverso il costo della razione perché i costi della razione si fanno sempre a prezzi di mercato e a prezzi standard. Però se per esempio io ho un appezzamento che mi fornisce la metà del mais che mi aspettavo, o per eccesso di piovosità o per un crollo della piovosità, come è già avvenuto, il costo di produzione di quel mais raddoppia. E questo non diventa un costo di produzione nella razione ma diventa un rischio; quindi si tratta di gestione del rischio rispetto a costi che vanno inevitabilmente coperti con i margini lordi.
Quando parliamo di rischi parliamo anche di rischi di carattere sanitario.
Sì. Il settore latte è uscito positivamente dal problema dermatite bovina; ha gli occhi aperti relativamente alla blue tongue… Però la gestione del rischio sanitario è un costo, è un costo importante, è un costo elevato e gli allevamenti strutturati devono coprirlo questo costo. E come si copre? Si copre con il margine lordo.
Però alla fine l’allevatore ha anche un margine netto. Tolti i costi variabili e tolti i costi fissi l’allevatore ha un profitto. Che ultimamente è più alto che in passato.
Certo, è un profitto positivo, abbiamo avuto anche anni con profitti negativi, ma ultimamente è positivo.
Parliamo allora delle possibili conseguenze aziendali di un profitto positivo. Come conviene utilizzarlo? Conviene che l’allevatore investa nella propria azienda oppure nella propria famiglia? Oppure nella propria cooperativa? Quali sono i tipi di investimento più strategici?
Un imprenditore, come è adesso a tutti gli effetti l’allevatore, se è un vero imprenditore deve investire nelle aree strategiche per il futuro della propria azienda. Quindi la logica dell’investimento, a mio modo di vedere, deve essere una logica di lungo periodo. E quali sono gli elementi chiave? Gli elementi chiave sono la gestione del rischio, il ricambio generazionale, la volatilità di mercato e la propria struttura aziendale. Devono essere queste quindi le aree di investimento.
Investire nelle aree strategiche per il futuro della propria azienda significa anche investire nel ricambio generazionale.
Certo. Per quanto riguarda il ricambio generazionale, investire significa rendere la propria attività attrattiva e profittevole. E non è solo una questione di profitto, è anche una questione di organizzazione, di orari di lavoro, di qualità del lavoro, per certi aspetti anche di digitalizzazione. Tutti i giovani si aspettano di avere a che fare con una struttura gestionale arricchita da elementi di digitalizzazione. Quindi investire nell’organizzazione della propria attività significa rendere la propria attività più attrattiva. Chiaramente anche l’elemento dei margini e del profitto è un elemento di attrattività, però per come è inteso oggi il lavoro è sempre di più importante riuscire ad avere delle turnazioni, riuscire ad avere dei momenti liberi, e sono obiettivi difficili da raggiungere.
Dotare le proprie stalle di uno spogliatoio per gli addetti…
Sì, anche questo. In conclusione, tre obiettivi: investire sul personale; investire sulle strutture della propria azienda pensando al benessere animale, ossia più metri quadrati per animale, maggiore dotazione di impianti di climatizzazione; investire anche nell’equilibrio tra la propria attività zootecnica e la propria attività agronomica.
Analizziamo quest’ultimo aspetto.
Bisogna investire nella dotazione di terreno, che non necessariamente prevede l’acquisto, si può fare anche con altri strumenti. Il lato agronomico è un lato che ha bisogno di un certo sforzo, perché spesso è un fattore di limitazione.
Sono anni in cui il mais soffre di una grave crisi e quindi cala la produzione di questa importante materia prima per l’alimentazione degli animali zootecnici.
Esatto, quindi quello che io sottolineo è che è importante che ci sia un equilibrio tra la quantità degli animali presenti in allevamento e la propria dotazione di terreni. Questo perché la sostenibilità ambientale degli allevamenti passa anche attraverso la capacità di gestire, trattare e distribuire i propri reflui zootecnici in modo da renderli un’opportunità di concimazione e non un problema di gestione.
Dunque per perseguire questo obiettivo serve una dotazione di terreno adeguata e anche questo è un investimento.
Quando si parla dell’aumento della dimensione media degli allevamenti, che è un percorso imprenditoriale fisiologico per molti settori, è importante che il percorso sia equilibrato. Cioè laddove c’è un aumento della dimensione degli allevamenti ci deve anche essere un aumento della disponibilità di terreni.
Sia per l’alimentazione degli animali sia per la gestione dei reflui.
Esatto. Anche perché, sottolineo, le nostre produzioni di pregio, quelle in indicazione geografica e anche quelle che non sono in indicazione geografica, comunque le produzioni nazionali, mantengono un forte legame col territorio. Anche lo stesso latte fresco ha un legame territoriale perché deve essere raccolto in un circuito territoriale breve, perché bisogna garantire la freschezza del latte... In questo schema di legame dell’attività zootecnica col territorio, l’approvvigionamento degli alimenti per gli animali dalla zona d’origine è un parametro importante che va preservato. Come i disciplinari delle nostre dop prevedono, almeno il 51% della sostanza secca dev’essere proveniente dalla zona d’origine e quindi è necessario che ci sia una solida produzione di alimenti direttamente da parte dell’areale.
Questo può rivelarsi un problema in futuro, perché se continua a calare la produzione di mais, o quella della medica, inesorabilmente la cosa si ripercuote anche sulla vita delle dop.
Sì, però ci sono altri elementi da considerare: dal punto di vista agronomico si stanno affermando sempre di più le doppie colture, ci sono varietà o specie che riescono ad avere buone performance produttive anche in condizioni meteorologiche un po’ più critiche, tipo il sorgo, o anche il triticale. Quindi molto si può fare, però bisogna averlo come obiettivo.
Qual è il ruolo della cooperativa lattiero casearia all’interno di questo scenario?
Tra i rischi che l’attività di produzione del latte deve fronteggiare c’è quello della volatilità del mercato. Quindi non lasciamoci illudere dal periodo positivo che abbiamo attraversato fino ad ora: questo periodo non deve farci concludere che la volatilità sia scomparsa. La volatilità è un rischio potenziale sempre presente e si può manifestare anche con magnitudini importanti in periodi di tempo relativamente brevi.
E quindi la cooperativa può aiutare l’allevatore ad affrontare la volatilità di mercato e il rischio di mercato?
Nel mio modo di vedere l’allevatore deve pensare alla propria attività produttiva come inserita in una filiera. Quindi va messa in evidenza l’importanza da parte dell’allevatore di interpretare la filiera come una risorsa utile non solo per ottenere maggior valore dalla catena del valore in cui è inserito, ma anche per gestirne la volatilità. E per essere inseriti in una filiera ci sono vari strumenti, come i contratti che sono obbligatori, che possono avere periodi anche medi o lunghi; però la modalità più efficace per essere inseriti in una filiera è quella di far parte di una struttura cooperativa. Il mercato italiano è già organizzato in cooperazione alla stalla per il 70% circa della raccolta. Però si può fare ancora molto perché c’è spazio di crescita, c’è una propensione alla cooperazione che è comunque una propensione buona sulla quale vale la pena lavorare.
Ma unirsi a una cooperativa non è una opportunità immediata o gratuita.
Aderire a una cooperativa significa essere disposti a sottoscrivere un capitale sociale, quindi occorrono delle risorse, significa essere inseriti in un gruppo di allevatori che hanno proprie regole interne… Però è una situazione che permette di mediare il rischio, perché le cooperative spesso hanno delle strutture produttive diversificate, talvolta hanno più prodotti in portafoglio, frequentano il mercato in modo costante, possono mediare anche avendo un solo prodotto. Le cooperative possono mediare situazioni di mercato diverse nell’arco dell’anno e quindi aiutano a gestire il rischio, inteso come volatilità di mercato.
Esiste la possibilità che le cooperative lattiero casearie italiane diventino più grosse? Nel senso che diventi minore il loro numero totale ma diventi maggiore la loro produzione vendibile?
Su questo aspetto faccio una precisa considerazione. Una delle richieste che la cooperazione fa, l’abbiamo avanzata l’anno scorso a novembre in occasione del Summit della cooperazione lattiero casearia italiana, è quella di dotare il settore lattiero caseario italiano di uno strumento dedicato al latte come già hanno l’ortofrutta e il vino, ossia di una Ocm Latte, organizzazione comune di mercato. L’Ocm è uno strumento che permette alle filiere organizzate di fare investimenti strategici sulla propria attività produttiva, quindi investimenti in innovazione, in formazione, anche in comunicazione, laddove ci dovessero essere gli spazi per farlo. Una struttura che preveda un’Ocm è una struttura che prevede inevitabilmente un dialogo tra gli operatori; si tratta di uno strumento che incentiva l’aggregazione dell’offerta. Questa è una scelta, una proposta di carattere strategico per il settore; nel comparto ortofrutta per esempio ha offerto risultati importantissimi in termini di aggregazione dell’offerta, sono state create strutture molto importanti.
Però sarà almeno una decina d’anni che si parla di un’Ocm Latte e questa ancora non c’è, come mai?
Io penso che la necessità di un’Ocm Latte sia una necessità crescente nel tempo. La struttura del mercato è cambiata, la struttura degli nostri allevamenti si è modificata, la dimensione media degli allevamenti è aumentata, la percezione e la coscienza dei problemi da affrontare sono aumentate. E quindi la discussione è in corso. Secondo me c’è terreno fertile perché possa proseguire e portare a questo risultato. Il fatto che in passato l’Ocm Latte non si sia concretizzata può essere dovuto al fatto che non veniva percepito appieno il valore che poteva avere nell’affrontare i problemi del settore. In ogni caso il settore lattiero caseario è in fase di ristrutturazione.
Con quali dinamiche?
È in fase di ristrutturazione non solo per quanto riguarda gli allevamenti, che sono mediamente più grandi e più concentrati. Ma anche l’attività di trasformazione si sta concentrando, il numero dei caseifici a Parmigiano Reggiano si riduce, il numero dei caseifici a Grana Padano si riduce, i privati che trasformano sono sempre di meno, quindi c’è una fase di riorganizzazione che è un percorso che ha degli elementi fisiologici e che deve seguire i processi di mercato.


Nelle aree marginali la strada è ancora in salita

Presidente Guarneri, lei ci ha parlato di crescita aziendale, concentrazione produttiva, ricambio generazionale, investimenti… Ma tutto questo vale anche per le zone marginali?
I margini economici positivi stanno dando linfa allo sviluppo del settore zootecnico nelle zone vocate. Purtroppo questo non si verifica anche nelle zone con condizioni territoriali difficili, seppure a vocazione lattiero casearia, quindi tipicamente nelle colline e in montagna. Queste zone continuano a versare in una situazione di difficoltà, nonostante i prezzi positivi.
Come si spiega?
Una prima motivazione è che per poter svolgere un’attività zootecnica efficace è necessario avere un ecosistema di servizi attorno alla stalla. Penso ai servizi di inseminazione artificiale, ai servizi veterinari, ai servizi di consulenza, ai servizi collegati agli aspetti agronomici, ai servizi di trasporto. Penso a un facile accesso al mercato dei mangimi, sia per prezzi che per soluzioni tecnologiche, quindi a mangimi e integratori che possano permettere agli animali di essere più performanti… Un ecosistema che nelle zone marginali è debole o proprio non esiste.
Come in montagna…
Per contare su questo ecosistema bisogna essere inseriti in un settore, in un’area geografica dove tutti questi fattori sono disponibili in abbondanza. Mentre le zone di montagna sono zone invece in cui gli allevamenti sono spesso isolati, dove è più difficile che possa arrivare per esempio un servizio di sostituzione per gli addetti alla mungitura, per esempio quando il dipendente va in ferie. I servizi di sostituzione di mungitura sono servizi importanti, ma laddove ci sono tanti allevamenti vicini è facile implementare un servizio di questo genere, laddove invece gli allevamenti sono isolati no.
Quindi per chi si trova in zone svantaggiate, isolate, fare attività zootecnica è molto più complesso.
Già. E una seconda motivazione è relativa alla struttura dei costi, sia variabili che fissi. In un allevamento in montagna, o in zona svantaggiata, i costi sono incredibilmente più elevati rispetto a quelli di una stalla situata in pianura. Probabilmente realizzare una stalla di 200 vacche in pianura ha lo stesso costo che realizzare una stalla di 50 vacche in montagna.
E poi ci sarà una terza motivazione: la sempre più ridotta disponibilità di erba medica nella zootecnia di montagna, anche per la maggiore difficoltà irrigua.
Certo. Inoltre l’attività zootecnica in montagna è esposta anche al rischio di danni da animali predatori, eccetera. Insomma, c’è tutta una serie di fattori che rende la produzione in montagna difficile, e infatti il numero degli allevamenti in queste zone si riduce più rapidamente che non in pianura. E la produzione di latte quando in pianura è stabile, in montagna cala, e quando in pianura cala, in montagna cala ancora di più.
Che fare allora?
Allora è necessario sostenere queste produzioni, perché un valore aggiunto del lattiero caseario italiano sul mercato mondiale è costituito appunto dal legame col territorio e dalla variabilità dei prodotti. Quindi perdere le produzioni collegate a questi territori significa perdere ricchezza in termini di offerta, di offerta non solo squisitamente merceologica, ma anche di offerta generale come paese sul mercato mondiale. E quindi questo impoverimento ha delle ricadute negative non solo a livello locale, come l’abbandono del territorio o la perdita di caratteristiche del territorio, ma anche sull’intero settore. Quindi tutto il settore si deve porre questo problema. E occorrono misure di sostegno alla raccolta del latte, all’acquisto degli animali, alla consulenza zootecnica.
Misure di sostegno da parte pubblica?
Sì, da parte pubblica. Questa è precisa una richiesta che abbiamo fatto anche come cooperazione.

Nuove tipologie di costi a carico dell’allevamento - Ultima modifica: 2025-10-05T12:03:22+02:00 da Giorgio Setti

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