L’allevamento della vacca da latte in Italia ha raggiunto negli ultimi decenni livelli produttivi molto elevati, frutto di lunghi investimenti economico-culturali sul miglioramento genetico, sull’alimentazione, sulla progettazione strutturale delle stalle e sul management in generale. Tra i fattori che giocano un ruolo importante sul mantenimento di elevati standard produttivi ci sono gli aspetti sanitari causati da agenti infettivi. Insieme alla biosicurezza e alle buone prassi di allevamento, la vaccinazione ha assunto col passare degli anni sempre più importanza, sia perché la disponibilità di prodotti commerciali è aumentata, sia perché è maturata la giusta convinzione che investire nella prevenzione rende economicamente di più che risolvere i problemi.
Negli ultimissimi anni la vaccinazione insieme ad altre pratiche di biosicurezza è incentivata anche dalle istituzioni pubbliche come mezzo per la prevenzione delle malattie negli allevamenti zootecnici e la diminuzione dell’utilizzo degli antibiotici.
Diverse tipologie di vaccini
Ma quindi cos’è esattamente un vaccino? Non è altro che una preparazione contenente l’agente infettivo stesso o sue frazioni, che se inoculata in un soggetto immunocompetente induce una risposta immunitaria in grado di proteggerlo in futuro dall’aggressione del patogeno verso cui è stato vaccinato.
La stimolazione immunitaria indotta nell’ospite dalla vaccinazione viene definita “attiva” o “acquisita”, risultato dell’attivazione della risposta immunitaria propria del soggetto. Viene invece definita “passiva” l’immunità che il vitello acquisisce tramite l’assunzione del colostro materno e degli anticorpi in esso contenuti, che lo aiutano a proteggersi da possibili infezioni nei primi 3-4 mesi di vita [1].
Se il vaccino contiene il microorganismo ancora in grado di replicare o moltiplicarsi, viene detto “vivo”. Se al contrario contiene il microorganismo inattivato (quindi non più in grado di replicare o moltiplicarsi), o alcune sue frazioni, viene detto “spento”. A seconda del tipo di vaccino e della via di somministrazione impiegata, la risposta immunitaria evocata nell’ospite sarà diversa (tabella 1).
Un vaccino monovalente stimola la risposta immunitaria nei confronti di un solo agente infettivo, mentre un vaccino polivalente induce una protezione verso due o più agenti infettivi.
Un vaccino stabulogeno è un vaccino creato generalmente dagli istituti zooprofilattici, su richiesta del veterinario aziendale, partendo da un ceppo batterico isolato in corso di malattia nell’allevamento che lo ha richiesto.
Se da un lato con l’impiego di vaccini vivi, si ha in generale una risposta immunitaria più completa (in quanto il patogeno ancora vivo mima l’infezione naturale), dall’altro è possibile che la loro virulenza residua possa causare all’animale sintomi e lesioni tipiche della malattia, così come la potenziale patogenicità per il feto se somministrati in gravidanza alla madre, o l’induzione del fenomeno della latenza (per gli Herpesvirus); tali rischi vengono invece evitati con l’impiego dei vaccini spenti.
Un’ulteriore opzione è costituita dai vaccini vivi somministrati per via intranasale, in grado di evocare una buona risposta immunitaria nell’animale anche e livello mucosale, oltre che sistemico, e di dotare così il soggetto di una buona copertura locale nel punto di ingresso del patogeno [2].
Viste le diverse tipologie di vaccini esistenti in termini di composizione, via di somministrazione e stimolazione immunitaria evocata, si deduce che ogni intervento vaccinale dev’essere tarato ad hoc in base alla tipologia di allevamento, al contesto sanitario preesistente (opportunamente verificato tramite test diagnostici) ed al management aziendale.
BVD
È ben noto il ruolo svolto da diverse malattie virali nel determinare patologie a carico dell’apparato riproduttore così come nell’insorgenza di sindromi respiratorie, in particolare nei giovani animali.
Il virus della Diarrea virale bovina (BVD virus) è responsabile di pesanti danni economici in allevamento [3]. Caratterizzata da alta morbilità e bassa mortalità, questa malattia può presentarsi come una sindrome gastroenterica lieve ed episodi respiratori, associati a problematiche riproduttive (ritorni in calore, mortalità embrionale, aborti e infertilità) e all’aumento di altre patologie normalmente presenti, che vengono in questo caso favorite dall’azione di immunodepressione svolta dal virus. Quando il virus infetta bovine gravide non immuni (sprovviste quindi di copertura vaccinale), è in grado di superare la barriera placentare e infettare il feto: se l’infezione fetale avviene entro il 120° giorno di gravidanza, potrà determinare o riassorbimenti e aborti, o la nascita di soggetti immunotolleranti persistentemente infetti (Ipi). Gli Ipi sono individui che non svilupperanno mai risposta immunitaria contro il virus e per tutta la vita presenteranno alte cariche virali nel sangue, con conseguente escrezione virale nell’ambiente, rappresentando una perenne fonte di infezione per gli altri animali [4].
Per prevenire o risolvere
Nell’allevamento della vacca da latte, per prevenire o risolvere il problema della BVD, vanno attuate in modo parallelo due percorsi: la ricerca e l’eliminazione dei soggetti persistentemente infetti (chiedere al proprio medico veterinario il percorso diagnostico più adatto al proprio allevamento); la vaccinazione per BVD, che serve soprattutto per immunizzare le bovine gravide in modo che non nascano in futuro altri vitelli immunotolleranti. La vaccinazione dei vitelli serve invece a prevenire l’insorgenza di forme respiratorie causate o favorite dal virus BVD.
Il protocollo vaccinale per la BVD varia notevolmente in base al vaccino che si decide di utilizzare, ma come approccio teorico generale lo schema dovrebbe prevedere:
- una vaccinazione attorno ai 20-30 giorni di vita, nel caso in cui il vitello sia nato da madri non vaccinate, e quindi non abbia ricevuto col colostro l’immunità passiva;
- una vaccinazione a partire dai 4-6° mesi di vita, nel caso in cui il vitello sia nato da madri vaccinate e quindi al termine dell’effetto dell’immunità materna (colostrale) [1];
- una vaccinazione delle manze prima della fecondazione (attorno ai 12-14 mesi) e delle manze gravide negli ultimi 60 giorni di gestazione, in modo che produrranno un colostro ricco di anticorpi;
- una vaccinazione dell’intero gruppo di lattazione ogni 6 mesi o 1 anno in base all’utilizzo di vaccino spento o vivo.
Nel caso della BVD la scelta di vaccinare con vivo o spento è condizionata, oltre che dagli aspetti già citati, anche dalla difficoltà di interpretazione dei risultati dei test diagnostici nel caso in cui si debba verificare in futuro la circolazione virale in allevamento. Il vaccino vivo infatti determina una risposta anticorpale sovrapponibile a quella che si ha in caso di infezione naturale: l’organismo produrrà anticorpi diretti sia nei confronti delle proteine strutturali (sempre espresse dal virus) sia di quelle non strutturali (Ns - espresse dal virus solo in caso di replicazione) e dunque non sarà possibile distinguere gli animali vaccinati da quelli che si sono naturalmente infettati.
Il vaccino spento invece stimola la produzione di anticorpi diretti solo nei confronti delle proteine strutturali, con la possibilità di distinguere gli individui vaccinati da quelli immunizzatisi per infezione naturale.
Attualmente, l’Italia non risulta indenne per BVD, e la movimentazione degli animali non è regolata a livello Europeo né a livello globale (ad eccezione degli animali con manifestazioni cliniche generiche). Limitazioni per le movimentazioni sono però previste verso la Provincia autonoma di Bolzano dove tutti i bovini presenti sul territorio devono aver reagito negativamente alla ricerca del virus (campionamento della cartilagine auricolare) e dove vige il divieto di vaccinazione (Decreto del direttore di servizio n. 31.12/136762 del 10 marzo 2009). Limiti commerciali sono previste anche per il commercio di embrioni, in Italia (Legge 126/63; D.P.R. 505/82, 226/92, 241/92) in Europa (2003/43/CE; 88/407/CEE) e a livello globale (Terrestrial animal health code-section 5) [5].
IBR
L’ Herpesvirus bovino di tipo 1 (BoHV-1), agente eziologico della Rinotracheite infettiva bovina o IBR, è un altro importante patogeno presente nei nostri allevamenti. Oltre alla patologia respiratoria, questo virus è in grado di determinare patologie della sfera riproduttiva con aborti (prevalentemente dal 3° al 6° mese di gestazione), vulvovaginiti e infertilità [6]. Caratteristica dei virus erpetici inoltre è il fenomeno della latenza [7], in cui il virus resta quiescente a livello nervoso anche per lunghi periodi, senza che l’animale mostri alcun sintomo, per poi riattivarsi in periodi di stress. Gli individui latenti svolgono così un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’infezione in allevamento.
L’obiettivo della vaccinazione diventa così duplice: oltre alla protezione degli animali vaccinati, la limitazione della riattivazione dell’infezione latente nei soggetti positivi. Anche in questo caso sono disponibili in commercio diversi vaccini, sia vivi che spenti, mono e polivalenti.
Anche per l’IBR esiste la possibilità di vaccinare per via intranasale, con il vantaggio di indurre una buona produzione a livello mucosale anche in presenza di immunità colostrale [2].
Sfruttando le conoscenze sul virus dell’IBR, la tecnologia biomolecolare ha permesso la realizzazione di vaccini cosiddetti “gE-deleti” o “marker gE-”, il cui utilizzo continuativo su una mandria permette di distinguere da un punto di vista sierologico i soggetti vaccinati da quelli che hanno subito un infezione naturale (che potrebbero quindi essere latenti). L’efficacia vaccinale è paragonabile agli altri vaccini, ma si ha il vantaggio di sapere se la propria mandria e i singoli animali sono indenni nonostante l’impiego della vaccinazione.
Dal punto di vista legislativo è fatto divieto di introduzione di animali positivi all’IBR negli allevamenti da riproduzione situati in Lombardia, con controlli sulla movimentazione degli animali a seconda del livello sanitario dell’allevamento (Decreto n° 5080 del 17 maggio 2007), così come di utilizzare seme o embrioni non conformi alle normative vigenti (88/407/Cee, Decreto n° 5080 del 17 maggio 2007). Per gli scambi comunitari, esistono limitazioni differenti a seconda del livello sanitario dell’allevamento e dell’area d’esportazione. Attualmente l’Italia non risulta ufficialmente indenne. Solo la provincia di Bolzano è considerata “free” dall’Ue (in accordo con Dir. 64/432/Cee, art 10) e piani di eradicazione approvati UE (in accordo con Dir. 64/432/CEE, art 9) esistono solo in Friuli Venezia Giulia e Provincia autonoma di Trento. È vietato il commercio di seme ed embrioni non conformi agli standard Oie (Terrestrial animal health code-section 5) [8].
Le patologie enteriche dei vitelli
Nel primo mese di vita le principali patologie che possono interessare il vitello sono di origine enterica e culminano quasi sempre con il sintomo della diarrea. Se il vitello viene correttamente e tempestivamente trattato guarisce ma ne risulta comunque debilitato e avrà quindi un accrescimento minore, così come una maggiore suscettibilità allo sviluppo di altre patologie; quando invece la patologia viene trascurata può generare alti tassi di mortalità (5-10%) nel primo mese di vita.
I principali patogeni enterici di origine virale sono Rotavirus e Coronavirus, assieme a Escherichia coli, Salmonella spp., Clostridium perfrigens tra i batteri e Cryptosporidium spp, Eimeria spp. e Giardia spp. (coccidi) tra i protozoi. Anche se l’età di insorgenza della patologia enterica può orientare il sospetto diagnostico nei confronti di un agente eziologico (tabella 2), dal punto di vista clinico è difficile avere delle certezze in quanto si presenta quasi sempre un quadro multifattoriale in cui la conferma si può avere soltanto con l’aiuto delle analisi di laboratorio [9].
Il vitello nel primo mese di vita possiede un sistema immunitario deficitario che non è in grado di proteggerlo dagli insulti infettivi presenti, tuttavia sarebbe in grado di proteggersi assumendo correttamente il colostro nelle prime ore di vita. Il colostro infatti, rispetto al latte, è arricchito di immunoglobuline materne e altri fattori immunitari, come leucociti e citochine. Per avere una protezione mirata verso le patologie enteriche sono disponibili in commercio diversi vaccini polivalenti da somministrare alle manze e alle vacche nell’ultimo mese di gestazione. Questi vaccini contengono Rotavirus, Coronavirus e diversi ceppi di E. coli, tutti inattivati. Con la somministrazione del prodotto secondo foglietto illustrativo, si avrà una produzione di anticorpi contro questi patogeni che andranno quindi a concentrarsi nel colostro. La corretta colostratura del vitello offrirà una protezione specifica contro i principali patogeni enterici dell’allevamento bovino. A tal proposito, si ricorda che andrebbero somministrati circa 3 litri di colostro entro le prime 6 ore dalla nascita (finestra in cui si ha la maggior efficienza di assorbimento) anche con due pasti se il primo non dovesse risultare sufficiente. Se non si raggiunge un’adeguata concentrazione di immunoglobuline nel sangue (Ig>10 mg/ml) si instaura una condizione di Fpt, ovvero Failure of passive transfer, e l’animale sarà più incline allo sviluppo di diverse patologie nei primi mesi di vita [10].
La gestione igienico-sanitaria è fondamentale
Si puntualizza inoltre che la vaccinazione e la colostratura sono sì importanti mezzi di prevenzione delle patologie enteriche ma devono essere supportate da un adeguata gestione igienico-sanitaria delle strutture. Dato che tutti gli agenti infettivi vengono trasmessi per contatto diretto attraverso le feci, è importante alloggiare il vitello in una gabbietta singola che sia stata pulita e disinfettata.
Patologie respiratorie
Il periodo dello svezzamento e i mesi successivi sono un periodo critico per il vitello, perché si trova a dover fronteggiare diversi fattori stressanti, come il passaggio dalla gabbietta individuale al box di gruppo e il cambio della dieta alimentare. Inoltre in questa fase (attorno ai 4 mesi di vita) il sistema immunitario del vitello risulta essere deficitario, in quanto si è quasi esaurita la funzionalità dell’immunità colostrale (passiva), ma non è ancora elevata l’immunità acquisita (attiva). Tutti questi fattori predispongono l’insorgenza di altre patologie, in particolare le forme respiratorie che come tutte le patologie contratte nei primi mesi di vita possono inficiare l’accrescimento giornaliero, con ritardi nella messa in produzione e un possibile calo della produzione stessa se si sviluppano delle lesioni croniche [11].
I principali agenti eziologici sono: Coronavirus, Virus respiratorio sinciziale, Virus parainfluenzali, IBR e BVD dal punto di vista virale; Pasteurella multocida, Mannheimia haemolytica, Histophilus somni e diverse specie di micoplasmi dal punto di vista batterico (tabella 3).
Anche nel caso della sindrome respiratoria non è la semplice circolazione degli agenti patogeni a portare alla manifestazione della malattia [12], ma piuttosto un processo multifattoriale in cui le condizioni ambientali rivestono una grande importanza (condizioni igieniche delle strutture, condizioni atmosferiche dell’aria), insieme ad alcuni aspetti gestionali (densità degli animali, omogeneità nella creazione dei gruppi, vicinanza ad animali adulti) e di profilassi vaccinale.
La gamma dei vaccini disponibili in commercio è molto vasta (mono o polivalenti, vivi o spenti) e la scelta del corretto protocollo vaccinale dipende dalla singola situazione aziendale, che tenga conto delle scelte gestionali e della circolazione di agenti patogeni dimostrata attraverso una razionale metodologia diagnostica. Uno dei dubbi più importanti riguarda il momento più adatto per la vaccinazione!
L’immunità colostrale potrebbe teoricamente proteggere il vitello fino ai sei mesi di vita (se la colostratura è stata ottima) ma se, come spesso accade, la condizione di Fpt (deficit di trasferimento di immunità passiva) coinvolge più del 30% degli animali, la protezione passiva sarà più breve [14]. D’altro canto la somministrazione precoce di un vaccino può portare al semplice consumo degli anticorpi materni senza che il vitello sviluppi attivamente la propria risposta immunitaria.
Un buon compromesso sotto questo punto di vista viene offerto dalla vaccinazione intranasale, che porta a un’elevata risposta immunitaria a livello locale, con grossa stimolazione di produzione di interferone [2].
Altre vaccinazioni
Fino a qui sono state prese in considerazioni quelle che rappresentano le principali vaccinazioni negli allevamenti intensivi delle vacca da latte della Pianura Padana. Esistono tuttavia molte altre malattie per le quali si può, e in certi casi si deve, vaccinare. In particolare, meritano di essere citate:
- la vaccinazione per la mastite (ceppi inattivati di Echerichia coli e Staphylococcus aureus);
- la vaccinazione per clostridi (anatossine di Cl.perfrigens; Cl.septicum; Cl.novyi; Cl.tetani; Cl.sordelli; Cl.chauvoei; Cl.haemolyticum).
Conclusioni
Con questo articolo si è voluto mettere in evidenza l’importanza della vaccinazione come mezzo di prevenzione di alcune malattie infettive e la vasta gamma di tipologie vaccinali disponibili oggigiorno in commercio.
È scontato dire che non esiste un protocollo vaccinale ideale, ma ogni azienda deve necessariamente avere il proprio protocollo, al fine di ottimizzare il risultato sanitario desiderato e l’investimento economico effettuato. Il proprio veterinario aziendale attraverso le conoscenze tecnologiche dei presidi vaccinali, la conoscenza sanitaria attuale e storica dell’allevamento, le conoscenze sulla volontà gestionale dell’azienda e dei budget di investimento, è il professionista più idoneo con cui concordare il protocollo vaccinale.
(¹) Dipartimento di Medicina animale, produzioni e salute dell’Università degli studi di Padova.
(²) Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie (Izsve), sede centrale di Legnaro (Pd).
L’articolo completo è pubblicato su Informatore Zootecnico n. 18/2016
L’edicola di Informatore Zootecnico