La forte, rapidissima e più che mai reale globalizzazione dei mercati verificatasi nel recente passato, abbinata alle crescenti richieste di materie prime provenienti da paesi emergenti come la Cina, l’India e la Russia, ha determinato un forte incremento dei prezzi anche per il comparto zootecnico. Le principali fonti proteiche utilizzate, come le farine di estrazione di soia, colza e girasole in particolare, hanno raggiunto quotazioni quasi senza precedenti rispetto al passato (tabella 1 e figura 1).
A tale incremento hanno purtroppo contribuito, oltre all’aumento della domanda da parte dei paesi emergenti, anche il verificarsi di eventi climatici avversi nei principali paesi produttori.
Comunque, e indipendentemente da questa congiuntura sfortunata, l’analisi dei dati di mercato evidenzia che la Cina acquista circa il 65% della soia disponibile sul mercato mondiale, ovvero al netto della quota prodotta e non commercializzata ma reimpiegata direttamente, e si prevede che nel 2020 gli acquisti porteranno la percentuale al 70% (Taylor e Koo, 2011). Gli acquisti sono dovuti alla necessità di sostenere l’enorme ritmo di crescita della propria produzione zootecnica: con specifico riferimento al comparto carne, vi è stato un incremento produttivo pari al 5,80% annuo negli ultimi trent’anni, portando la stessa Cina a raggiungere il primato mondiale nella produzione di carni (28%) (Zhou et al. 2012).
La violenta influenza che esercita una tale domanda sugli equilibri del mercato mondiale della soia emerge evidente anche dal semplice confronto tra l’andamento delle quotazioni dei semi di soia in Italia con le importazioni cinesi. Si evince, infatti, come all’aumentare dell’import sia corrisposto un contemporaneo rialzo dei prezzi a livello nazionale (figura 1), il che rende ancor più l’idea di quanto oramai sia “spinto” il livello di globalizzazione del mercato delle materie prime alimentari.
A una domanda in aumento si è poi affiancata, negli ultimi anni, la carenza di piogge in Sud America, la quale ha determinato una ridotta disponibilità di soia (Brasile ed Argentina sono infatti rispettivamente il secondo ed il terzo produttore ma primo e secondo esportatore mondiale), inoltre la siccità di quest’anno che ha colpito il Mid-West degli Stati Uniti (primo produttore mondiale) è stata di gravità tale da condurre i principali analisti a stimare una riduzione del prossimo raccolto pari al 13,70% rispetto all’anno precedente.
A livello di allevamento, il rilevante aumento dei costi della proteina alimentare, in abbinamento a una non proporzionale crescita delle quotazioni dei bovini da macello, ha indotto alcuni allevatori e tecnici del comparto a considerare l’ipotesi di una riduzione sensibile dell’apporto di proteina dietetica, anche al di sotto della concentrazione tipicamente utilizzata nell’allevamento intensivo del bovino da carne (14% della s.s.; Cozzi, 2009), al fine di contenere il costo alimentare, prima voce di spesa e pertanto principale punto critico del bilancio aziendale.
Le performance di crescita
La bibliografia statunitense raccomanda concentrazioni proteiche comprese tra l’11,5 ed il 13% della s.s. per manzi e vitelloni e 14% della s.s. per le scottone, in quanto con livelli inferiori è stata riscontrata una riduzione delle performance di accrescimento (Secrist et al., 1995; Trenkle, 1995; Di Costanzo, 1996; Gleghorn et al., 2004; Bailey e Duff, 2005). Gli studi citati fanno ovviamente riferimento alla realtà di allevamento Usa, caratterizzata da genotipi, tecniche d’allevamento ed esigenze del consumatore in termini di tenore lipidico della carne profondamente differenti rispetto all’Europa.
Gli studi condotti nel nostro continente, anche se limitati, sembrano evidenziare un miglioramento delle performance di crescita somministrando diete con livelli proteici superiori a quelli precedentemente indicati.
Nello specifico, Juniper et al. (2007) riscontrarono un miglioramento dell’IPMG con titoli proteici della dieta superiori al 14% in vitelloni Simmenthal x Holstein. Inoltre diversi autori belgi in indagini condotte con vitelloni ipertrofici Blanc-Bleu Belga suggeriscono che, specialmente nelle fasi di accrescimento (350-600 kg), i livelli di proteina grezza non debbano essere inferiori al 14 % della s.s. (Boucqué et al., 1984; De Campeneere et al., 1999).
Tali indicazioni, se si vuole estrinsecare al massimo il potenziale genetico, sono a nostro avviso estendibili non solo alle razze da carne quali la Piemontese o le razze francesi ad elevata muscolosità e/o rilevante crescita (Charolaise, Limousine, Blonde d’Aquitaine, etc.), ma anche in quelle situazioni dove si vuole elevare il livello nutritivo della dieta modulando nel contempo lo stato di ingrassamento dell’animale (razze precoci e femmine).
L’assunzione di alimento
Oltre alle performance di crescita, un corretto apporto proteico sembra influenzare positivamente anche l’assunzione di alimento.
A riguardo Galyean sottolinea, in una articolata review del 1996, come tale azione sia da ricondursi all’effetto tampone esercitato dell’ammoniaca a livello ruminale. Anche Borger et al. (1994) riportano una correlazione positiva tra livello proteico della dieta, pH ruminale e assunzione.
Galyean evidenzia inoltre che, in linea teorica, il livello di proteina degradabile a livello ruminale è potenzialmente in grado di influenzare anche il bilancio acido-base metabolico, in quanto rappresenta una fonte di ammoniaca convertibile in ione ammonio, forma attraverso cui viene escreto a livello renale l’eccesso di protoni (situazione tipica di diete ad elevato contenuto di carboidrati fermentescibili quali quelle del bovino da carne). L’autore sottolinea, infine, che la quota di proteina dietetica è in grado di influenzare anche la digeribilità dell’amido, aumentandola attraverso la stimolazione di una maggiore secrezione di α -amilasi.
La risposta immunitaria
Come accennato, un ottimale apporto proteico con la razione condiziona anche le performance alla macellazione, migliorando peso e conformazione della carcassa e resa alla macellazione (Borger et al., 1973; Prior et al. 1977; Milton et al., 1997; Fiems et al., 1998, De Smet et al., 2000).
Anche la risposta immunitaria risulta strettamente correlata all’apporto proteico, aspetto questo di rilevante importanza durante la fase di adattamento del bovino da ristallo. Galyean et al. (1999) evidenziano a riguardo come la morbilità tenda ad incrementare quando la concentrazione proteica della dieta di adattamento supera il 13 % della s.s. (figura 2), a causa di un incremento dei livelli ematici di cortisolo dovuto ad un aumento della proteina metabolizzabile nella dieta (Nissen et. al, 1989).
Un approccio alternativo
Dall’analisi della bibliografia e dalle esperienze di campo emerge inequivocabile l’importante ruolo della proteina nell’ottimizzazione delle performance di allevamento e, pertanto, come non sia consigliabile, anche a fronte di elevati costi di approvvigionamento, diminuirne eccessivamente il contenuto nella dieta.
Anziché una riduzione, strategie consigliabili ed efficaci sono rappresentate dall’utilizzo di fonti proteiche alternative a quelle maggiormente impiegate e dall’ottimizzazione dell’utilizzazione dell’azoto a livello ruminale e delle sintesi di proteina microbica.
I distillers
Oltre alle tipiche fonti proteiche alternative, quali girasole decorticato e non, expeller di copra e palma, semola di mais disidratata e umida, colza, panello di germe di mais, trebbie di birra, etc., una ulteriore opportunità è rappresentata dai distillers (tabella 2), la cui disponibilità è recentemente in aumento in quanto coprodotto della produzione del bioetanolo dalla fermentazione alcolica dell’amido di mais, orzo o frumento. Costituiti da pericarpo, frazione proteica, germe, minerali e vitamine, ad essi viene generalmente aggiunta anche la cosiddetta frazione di “solubili”, composta da quota parte della frazione lipidica del cereale e dalla parete cellulare dei lieviti, i quali apportano proteina di buon valore biologico.
A seguito del trattamento al calore, i distillers sono caratterizzati da un by-pass ruminale decisamente elevato ed un tasso di degradabilità più lento (Firkins et al., 1985) e garantiscono un ottimo apporto di metionina, aminoacido limitante l’accrescimento dei ruminanti assieme alla lisina (Klemesrud et al., 2000) e primo aminoacido limitante se si considera l’apporto di proteina metabolizzabile fornito dai microrganismi ruminali (Storm e Ørskov, 1984). I distillers, inoltre, risultano caratterizzati da un buon contenuto sia di lipidi sia di NDF ad elevata e discretamente rapida degradabilità ruminale (Firkins et al., 1985).
La proteina microbica
Strategia ancor più importante è comunque, e senza ombra di dubbio, quella di aumentare l’efficienza delle sintesi ruminali. L’aumento della crescita batterica determina, infatti, un maggiore apporto di proteina microbica che, oltre ad essere una fonte proteica decisamente economica, è caratterizzata da un elevato valore biologico, aspetto questo che emerge chiaramente dal raffronto sia con il profilo aminoacidico di eccellenti fonti proteiche sia dal diretto confronto con la composizione del muscolo (tabella 3).
Tale approccio, oltre a consentire di ottimizzare la somministrazione di proteina vegetale, è inoltre, potenzialmente, in grado di determinare un miglioramento della digestione delle diverse componenti, inclusa la frazione fibrosa della razione, proprio a seguito dell’incremento e dell’attività ed efficienza della popolazione batterica ruminale.
Tale obiettivo può essere perseguito anche attraverso l’utilizzo di fonti proteiche “nuove”, come ad esempio i terreni di coltura per la produzione di nutrienti o additivi destinati all’alimentazione umana, che solitamente presentato un costo per unità proteica più conveniente rispetto alle classiche fonti proteiche alternative.
Anche la classica urea può contribuire a perseguire tale obiettivo nonostante il suo impiego debba essere estremamente misurato e accorto.
I microrganismi ruminali, infatti, sono in grado di convertire l’urea in ammoniaca, la quale verrà poi fissata su scheletri carboniosi derivanti dalla fermentazione glucidica per costituire gli aminoacidi necessari.
Il rischio iperammoniemia
L’urea è però caratterizzata da una degradabilità molto elevata, pari al 200 %/h (tabella 4; Van Amburgh et al., 2012), aspetto questo che comporta il rischio di “picchi” di concentrazione di ammoniaca a livello ruminale in presenza di un’insufficiente quantità di scheletri carboniosi per una sua adeguata utilizzazione, con conseguente iperammoniemia e comparsa delle tipiche dismetabolie ad essa connesse (patologie podali, enterotossiemie, quadri clinici da istaminemia, etc).
Tale rischio diventa ancor più importante se si considera che l’urea è un alimento somministrato a basso dosaggio (in media dai 30 ai 50 g/capo/d) e per tale motivo, se non inclusa nei mangimi o negli integratori ma immessa direttamente all’interno del carro miscelatore, è frequente una sua non omogenea distribuzione in mangiatoia.
Si ricorda, inoltre, che l’iperammoniemia porta a iperglicemia a causa di una insulinoresistenza dei tessuti extraepatici, con conseguente iperlipemia per un maggior utilizzo da parte dei tessuti dei lipidi in luogo del glucosio quale fonte energetica, nonché ipoinsulinemia per un’azione tossica diretta nei confronti delle cellule pancreatiche ed un elevato dispendio energetico per la sua detossificazione ad urea (Fernandez et al., 1988 e 1990).
Il principale fattore in grado di influenzare la produzione di proteina microbica a partire dall’urea è rappresentato da una adeguata disponibilità di carboidrati fermentescibili, in quanto essi, oltre a rappresentare una fonte indispensabile di scheletri carboniosi per complessare l’ammoniaca (NH3) derivante dall’idrolisi dell’urea, garantiscono un pH ruminale acido e, di conseguenza, una maggiore quantità di ammoniaca in forma ionizzata (NH4+), condizione che evita un suo eccessivo assorbimento da parte dell’epitelio ruminale e, pertanto, il rischio di iper-ammoniemia (Huntigton e Archibeque, 1999; Kertz et al., 2010).
Azoto a rilascio controllato
Al fine di ottimizzare e stabilizzare i livelli di ammoniaca entro i range considerati ottimali, stimolando nel contempo le sintesi e attività ruminali, una valida strategia è rappresentata dall’utilizzo dell’azoto non proteico a rilascio controllato.
A riguardo, si ricorda che il livello minimo di ammoniaca necessario per un’efficiente crescita dei batteri è pari a 10 mg/100 ml, al di sotto dei quali si assiste ad una severa riduzione dei processi di moltiplicazione e sintesi, mentre l’attività risulta massima con valori pari a 12-15 mg/100 ml di liquido ruminale (Sniffen et al., 2005).
Recenti studi condotti a riguardo nel bovino da carne sembrano infatti evidenziare che l’utilizzo di azoto non proteico a rilascio controllato in sostituzione di quota parte della proteina della soia, garantendo una disponibilità costante di ammoniaca a livello ruminale, consenta di ridurre di oltre un punto percentuale il tenore proteico della dieta, migliorando addirittura le performance zootecniche, grazie anche ad una maggior digeribilità della frazione fibrosa della dieta (figura 3).
Conclusioni
Da quanto brevemente esposto emerge come, nonostante il notevole incremento dei costi delle materie prime proteiche, non sia consigliabile ridurre al di sotto di determinati limiti e senza ricorrere a specifiche tecnologie in grado di ottimizzare le sintesi ruminali, il titolo proteico delle diete per bovini da carne, senza riscontrare un decisa ed evidente riduzione delle performance di allevamento.
Le uniche strategie percorribili sembrano pertanto rappresentate da una scelta oculata di fonti proteiche alternative, basata oltre che sul costo dell’unità proteica anche sul loro comportamento a livello ruminale in relazione alla tipologia di dieta utilizzata e sull’applicazione di tutte quelle tecnologie che consentono di massimizzazione l’efficienza digestiva e le sintesi di proteina microbica.
di C.A. Sgoifo Rossi, G. Baldi, R. Compiani
Gli autori sono dell’Università di Milano, Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza Alimentare.
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