La paratubercolosi è una malattia insidiosa, che provoca danni in allevamento e ha anche un aspetto zoonosico ancora da valutare nella sua interezza ma da non trascurare. Sicuramente, anche per questo, è cosa da considerare con la massima attenzione. Per la sanità dell’allevamento, per la qualità del latte e per i rapporti con il consumatore. Tenerla fuori dalla stalla è quindi un impegno per tutti.
Certo, non è una passeggiata: contro la paratubercolosi non esiste una terapia efficace, né un vaccino registrato per il bovino. Tuttavia, come dimostra l’esperienza di questi anni in molte stalle, è meno difficile di quel che si creda.
Infatti, nonostante la percentuale di aziende infette (con almeno un capo positivo) risulti ancora elevata (51%), dal 2013 al 2020 si è assistito ad una drastica riduzione delle aziende “problema” (cioè con più del 5% di animali infetti: dal 29% al 5% delle aziende totali), e della percentuale di capi infetti (dal 4% all’ 1%). Un dato, tuttavia, che riguarda soprattutto la Lombardia, dove si lavora su questa problematica da circa 7 anni e oltre 1500 aziende sono state testate nel 2020 nell’ambito del piano di controllo volontario per la paratubercolosi.
Cosa, invece, che non si è verificata con gli stessi numeri in Emilia Romagna, dove la partecipazione degli allevatori è stata più limitata. I dati lombardi confermano che il controllo di questa malattia è possibile, senza dimenticare tuttavia che, essendo una malattia a lungo decorso, sono necessari almeno 5-7 anni per raggiungere la negatività. Insomma, tempi lunghi che richiedono di agire in fretta.
Ma cosa possono fare gli allevatori per raggiungere l’obiettivo della negatività alla paratubercolosi? Ecco i passi da compiere.
Per prima cosa conoscere lo stato sanitario del proprio allevamento, utilizzando test sierologici a basso costo, da eseguire sui soggetti di almeno 2-3 anni di età (prima dei 2 anni di età la risposta immunitaria è molto scarsa e non si riesce ad evidenziare).
A questo punto, se l’allevamento è negativo, non introdurre animali da allevamenti positivi o di stato sanitario sconosciuto. L’acquisto di animali infetti è quasi sempre la causa dell’introduzione della paratubercolosi in allevamento, e nessun test diagnostico, applicato sui capi in compravendita, può dare la certezza che il soggetto negativo sia sano. Per questo motivo è sempre opportuno che le garanzie riguardino l’intero allevamento di provenienza dell’animale, di cui va richiesta la qualifica sanitaria.
Se, invece, l’allevamento è positivo, si deve iniziare un piano di controllo che preveda:
- un programma di test diagnostici, da eseguire sistematicamente (almeno 1-2 volte l’anno) su tutti i capi dell’allevamento di almeno 2-3 anni di età;
- la riforma, appena possibile, dei soggetti positivi ai test diagnostici. In attesa della riforma, i capi positivi devono partorire separatamente dai negativi;
- la protezione degli animali giovani dall’infezione, evitando il contatto diretto o indiretto con feci potenzialmente infette degli adulti (immediato isolamento dalla madre al parto, alimentazione con colostro di animali negativi, pastorizzazione del latte di scarto se utilizzato, allevamento in gruppi omogenei di età fino all’età adulta, protezione delle mangiatoie e degli abbeveratoi dalla contaminazione fecale di animali adulti).
Tenere la paratubercolosi fuori dalla stalla è un impegno per tutti. Non è facile, ma l’esperienza di chi già ci sta lavorando dimostra che si può fare.
Molto importante in questa prospettiva il ruolo del Centro di referenza nazionale per la paratubercolosi che è costituito presso la sezione di Piacenza dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna. All’interno del sito del Centro è possibile trovare materiale scientifico e divulgativo molto chiaro accurato.
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